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I 30 anni di MAREA, rivista femminista. Intervista alla direttora Monica Lanfranco

I 30 anni di MAREA, rivista femminista. Intervista alla direttora Monica Lanfranco

Il sottotitolo di Marea è 'Ormeggi, rotte, approdi' per raccontare la storia, i desideri e la realtà delle donne

Venerdi, 18/07/2025 -

MAREA, rivista femminista trimestrale, nel 2025 ha potuto festeggiare i suoi 30 anni di vita e di attività, senza alcuna interruzione. Nata alla fine del 1994 da un gruppo molto variegato di donne provenienti da esperienze diverse di giornalismo e non solo ha veicolato notizie, punti di vista con interviste, saggi e racconti, accompagnando questa pubblicazione anche con altri prodotti editoriali (alcuni testi di Lidia Menapace) e multimediali, come dvd e cd audio. La rivista è sempre stata diretta da Monica Lanfranco mentre negli anni si sono alternate redazioni e collaborazioni diverse. Dal 2025, dopo appunto aver festeggiato i 30 anni di attività, Marea diventa semestrale: usciranno due numeri annuali doppi, con due parole opposte. Il primo numero del 2025 ha sviluppato le parole nascere/morire. Per parlare di questa esperienza abbiamo posto delle domande a Monica Lanfranco.

Quale è il filo rosso, se c’è, che ha caratterizzato in questi trenta anni questa esperienza?
Marea ha una bellissima storia. Le sue copertine segnano con potenza visiva i temi trattati e timbrano, in qualche modo, lo stato dell’arte in Italia, e non solo, sulle tematiche del femminismo. La rivista è stata fondata a Genova nel 1994, molto tempo dopo il grande sommovimento degli anni Settanta, in un periodo di riflusso, sotto certi aspetti di vero e proprio backlash del dibattito femminista. In parte il bisogno che ha mosso me e poi le donne coinvolte era di colmare un vuoto e tornare a dare luce ai contenuti dei decenni precedenti. C’erano ancora tante testate, anche cartacee, espressione di gruppi presenti nelle varie città e con una storia di movimento femminista, ma Genova non ne aveva mai avute, come non ha mai avuto molto dal punto di vista della creatività politica, o ha sviluppato fermenti in ritardo rispetto ad altre città, come Torino, Milano, Roma, Bologna. Da una parte, quindi, il bisogno era di riconoscere questa fase storica e la fine, ormai da almeno una decina di anni, delle riviste degli anni Settanta, che tanto hanno contribuito ad una disseminazione del femminismo, come EffeDWFLapisGrattacielo, e che sono state, e restano, la base del dibattito teorico del femminismo italiano. Ci ponevamo la domanda: Marea cosa vuol dire in questo frangente? Intanto cerca di sanare una mancanza locale e prova a coprire un campo che in realtà non era stato preso in considerazione, ovvero quella della distanza lunga di riflessione rispetto al dibattito dei decenni precedenti. Abbiamo avuto molti mensili, anche settimanali; pensiamo a voi,  NOIDONNE, che parte dopo la guerra, nel 1944, in clandestinità, per poi fondarsi come la rivista che mette insieme per la prima volta nella storia del femminismo e della stampa italiana, la sinistra, il femminismo, il movimento delle donne istituzionale e quello non istituzionale. Marea ha provato a differenziarsi proponendo uno spazio di riflessione, analisi e dibattito partendo da concetti e parole che risuonassero per una grande parte delle donne in chiave femminista.

Quali i principali passaggi?
Il ragionamento alla base della periodicità di Marea è stato: non possiamo reggere la tempistica né di un settimanale, tipo Quotidiano donna, fondato nel 1978, né di un mensile. Proviamo dunque con un trimestrale, identificando ogni anno le quattro parole chiave che «segnano» il momento storico presente. Ovviamente occorreva deciderle molto prima, immaginando quello che poteva essere, a partire dalle suggestioni del presente, un futuro ipotizzabile di concetti e di bisogni che derivano da queste parole, per condividere le analisi su di esse. Il sottotitolo di Marea è infatti Ormeggi, rotte, approdiper raccontare la storia, i desideri e la realtà delle donne. Quindi nasciamo in un periodo in cui le riviste storiche non c’erano più, in cui iniziava già una sofferenza della stampa femminista come Noi donne e Quotidiano donna, o anche l’esperimento mainstream fallimentare di Effe. Noi di Marea cercavamo quindi di colmare questo gap: da una parte i mensili che stavano di più sulla cronaca, dall’altra mancavano riviste di approfondimento. C’era già lo spazio sulla letteratura, con le riviste Tuttestorie del 1990 e Leggendaria del 1997, dove ho lavorato agli inizi. Ecco, noi ci siamo poste il compito di colmare il bisogno di riflessione teorica e politica femminista non cadendo però nel linguaggio accademico e specialistico. Il nucleo promotore è stato infatti un gruppo di donne delle quali solo due erano giornaliste professioniste; le altre venivano dalla cosiddetta società civile – insegnanti, sindacaliste, attiviste, studenti –, un gruppo eterogeneo. Nel 1994 facevamo la rivista ancora con i computer «a vapore» e si scriveva con la macchina elettrica, o quella tradizionale a tasti, la famosa lettera 32. C’era ancora una tecnologia estremamente rudimentale e questo aspetto, per paradosso, si avvertiva anche nelle forme di impaginazione, nell’immaginare cosa doveva essere affiancato ai pezzi, che tipo di disegni o di segno grafico. Non c’erano foto: la copertina era un reticolato grafico, una sorta di tessuto in stile vagamente africano. Fino al 1999 Marea è stata una rivista di formato grande perché non ci piaceva assomigliasse ad un libro, era importante che ricalcasse l’editoria delle riviste storiche, come Effe, Grattacielo, Lapis. In copertina sceglievamo ogni volta una frase dedicata al tema, tratta da una dichiarazione o un pensiero di una filosofa, scrittrice, attivista. È stato subito chiaro che le parole chiave di ogni numero avrebbero interrogato l’ambito della sessualità ma anche quello delle relazioni, politiche e private, e delle emozioni rivisitate attraverso il femminismo. Questo è stato un aspetto a mio parere prezioso. Perché se i temi ricorrono nel tempo, il punto di novità e innovatività sta nell’angolazione attraverso cui guardi una parola, un concetto, come lo illumini, e l’idea di fare quattro numeri all’anno cercando di ipotizzare i temi e gli argomenti che avrebbero interessato quell’anno, il mondo delle donne e il femminismo a noi era parsa la cosa giusta, che colmava un’assenza nel panorama editoriale.

Oggi come è composta la redazione e come lavora anche sul piano tecnologico?
Oggi siamo un piccolo gruppo di 5 donne, tra i 30 e i 68 anni; solo io sono rimasta del nucleo iniziale. L’avvento di internet ha fatto la differenza: la tecnologia ha dato un’impronta nuova e radicalmente diversa al mondo della comunicazione, della scrittura, dell’editoria e ha ampliato le possibilità di collaborazione, coinvolgendo persone lontane fisicamente, anche se tutte, almeno una o due volte, ci siamo incontrate di persona. La rete ci ha dato un impulso enorme, con la costruzione del sito della rivista e poi anche quello del podcast Radio delle donne, è stata esponenziale la possibilità di essere conosciute e di ricevere proposte di collaborazione: ogni settimana, dagli anni Duemila, ci sono giovani che ci scrivono via mail proponendo articoli, e abbiano anche avuto delle stagiste e tesiste che hanno realizzato lavori di fine carriera universitaria sulla rivista, la sua peculiarità e i temi che tratta. Ormai le riunioni di redazione si fanno on line con brainstorming collettivi sulle parole chiave per i numeri in preparazione: molte volte sono state decise ad Altradimora, durante i seminari annuali, perché molte collaboratrici che gravitano intorno a Marea partecipano anche agli incontri e ai seminari di Altradimora. In precedenza, nella versione che per trent’anni ci ha viste uscire con 4 numeri annuali, c’era una sorta di tormentone legato all’acqua, al mare, all’elemento liquido per costruire le varie rubriche. Il tema centrale si chiama Orca. La presenza maschile è stata prevista, sin dalle prime uscite di Marea nel 1995, nella rubrica Delfino, il luogo dove gli uomini ragionano di sessualità e di politica. La sezione Medusa presenta un focus dedicato al corpo. Conchiglie ospitava le recensioni dei libri. Faro era la zona dedicata all’attualità e alle notizie del momento. Ci sono stati dei punti molto alti nella storia della rivista, perché Marea ha promosso decine di incontri, convegni e appuntamenti di grande prestigio, il tutto senza risorse economiche adeguate. Siamo state la prima rivista d’Italia, sicuramente l’unica testata femminista, a promuovere la critica al multiculturalismo invitando esperte e attiviste di fama internazionale nel periodo di pieno «scontro di civiltà»: nel 2006 a Genova organizzammo le due giornate de La libertà delle donne è civiltà, il cui senso fu quello di dire forte e chiaro che eravamo contro la logica dello sconto di civiltà, intesa come contrapposizione di Occidente e Oriente, ma anche assolutamente lontane dalla deriva relativista che metteva in dubbio l’universalità dei diritti, nel nome del rispetto acritico delle culture e delle fedi religiose diverse, legittimando in tal modo antiche e nuove forme di marginalizzazione dei diritti delle donne. Nelle due giornate nel 2006 abbiamo discusso di libertà delle donne come fondamento dei diritti universali, di civiltà, di laicità dello stato come base della democrazia. Sono stati tre giorni straordinari per livello del dibattito e per partecipazione, il tutto registrato e disponibile su Arcoiris.tv. Questo appuntamento è stato il seguito naturale di un altro momento fondativo per Marea, ovvero la sua presenza durante il G8 a Genova nel 2001. All’epoca ero una delle venti persone portavoce del Genoa Social Forum: capimmo come attiviste che mettere in programma un appuntamento femminista sulla globalizzazione a luglio 2001 dentro il gigantesco serbatoio dei dibattiti avrebbe annacquato e reso meno forte il messaggio. Decidemmo così di anticiparlo a giugno, e abbiamo condotto una riflessione profetica (a settembre ci sarebbero stati gli attentati alle torri gemelle) sull’intreccio tra genere e globalizzazione. Furono tre giorni di dibattito con 1500 donne da tutto il mondo ma soprattutto da tutti gli ambienti, dalle ragazze dei centri sociali alle suore comboniane. Ne ho scritto nel libro Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo. PuntoG. Il femminismo al G8 di Genova (Vanda Edizioni), che uscì il 1o luglio 2021 in occasione del ventennale del G8. Ricordo che a casa mia, allora, c’erano quelle che la mattina andavano a messa e le altre che «peggio mi sento» a parlare di religione; eppure tutte riuscivamo ad avere punti in comune. In quei tre giorni, abbiamo anticipato un tema che oggi è di una attualità persino dolorosa dopo la pandemia: uno dei seminari era infatti «globalizzazione e sentimenti».

Dopo questi 30 anni ci sono novità che riguardano le forme e i contenuti della vostra esperienza editoriale?
Come anticipato, dal 2025 diventiamo semestrale, e questo cambiamento ci spinge a chiedere contributi di scrittura più legati al registro saggistico piuttosto che a quello letterario, vedremo come sarà accolta questa proposta. Il dato interessante è che la rivista è doppia e si presenta nella modalità fronte/retro: per accedere alla parola opposta bisogna fisicamente girare la rivista. Un modo giocoso e sorprendete che spero piacerà alle lettrici e ai lettori.

Le novità introdotte nel mondo dell’informazione e della comunicazione dalle nuove tecnologie cosa hanno rappresentato per voi?
Quando provi a immaginare i temi che potrebbero essere interessanti per il prossimo anno, così da chiedere alle collaboratrici di scrivere, fai uno sforzo col quale non stai solo pensando a una parola o a una frase che sintetizza l’argomento; stai ipotizzando come la realtà potrebbe configurarsi. In questo, secondo me, siamo state spesso capaci di intercettare gli interessi, a volte centrando i punti di criticità, a volte proprio anticipandoli. Adesso, per esempio, infuria un sanguinosissimo dibattito sulla prostituzione. Facemmo un numero speciale sul tema, anche in conseguenza del seminario ad Altradimora nel quale invitammo l’attivista Rachel Moran, autrice di Stupro a pagamento. Questo libro è uno spartiacque e separa, senza sfumature, anche le femministe. Del resto, i temi legati all’intreccio tra sessualità, denaro e dominio creano conflitto. Le sfaccettature possono esserci, ma sono temi che chiamano a posizionarsi, ad assumere visioni chiare. Quello che ci è stato criticato, per paradosso – non a caso dalla Libreria delle donne – è l’impostazione che Marea ha adottato nel dare spazio, e parola, a visioni che non condividi in pieno, a dichiarare la propria ma a provare a dialogare. Questa scelta – lo dico anche da giornalista – mi sembra sia un bonus che Marea testimonia, un tratto di disponibilità che dice: non è detto che siamo d’accordo, ma aprire uno spazio e tentare anche, a volte, una mediazione di ascolto, è importante, soprattutto rispetto ai giovani e agli uomini. Sintetizzando, direi che in Marea c’è un doppio binario che ci caratterizza quanto a offerta di dialogo anche conflittuale: le donne giovani e i maschi. Se vuoi riaprire il tavolo e imbandirlo, pur continuando a discutere, penso si debba procedere così.

La rivoluzione dell’intelligenza artificiale quali riflessioni e iniziative vi sta sollecitando?
La domanda è davvero pertinente, visto che il secondo numero di Marea in autunno sarà dedicato alla diade reale/virtuale: proveremo a chiedere dei contributi che evidenzino le possibilità e i pericoli di questa mutazione antropologica che sta travolgendo l’umanità.

Il problema di interloquire con le nuove generazioni è questione cruciale con cui il vasto e complesso mondo femminista e femminile si è misurato e continua a misurarsi. Che opinione e che esperienza potete portare da questo punto di vista?
Provo a spiegare la visione – e insisto sulla parola visione – che mi anima nel proporre, da 30 anni in Marea, alcuni argomenti che sappiamo urticanti. Tutti questi argomenti, a mio parere, sono apparentati dalla frequente intromissione di una parola che viene molto usata, specialmente ma non solo dalle generazioni più giovani: scelta. Partire dalla «scelta», parola ultimamente molto religiosa (dicendo «è la mia scelta», «è la sua scelta», spesso si vuole bloccare ogni ulteriore discorso e/o obiezione), come se la scelta fosse qualcosa di avulso e distaccato da tutto il resto, non coniugandola con la responsabilità, è un mantra che spesso è legato (anche se non è solo una questione generazionale) al posizionamento della generazione intorno ai quarant’anni. Lo troviamo infatti in particolare dentro il movimento Non una di meno, ma non solo lì. Per paradosso, questo tipo di visione è molto neoliberista (nonostante gli ambiti nei quali si insiste sulla sacralità della scelta siano fortemente antiliberisti): si urla contro il neoliberismo in economia e nella gestione delle migrazioni ma si applica uno strano parallelismo quando siamo in presenza del corpo femminile. I temi cardini nei quali il neoliberismo introiettato viene assunto anche a sinistra e da pezzi di femminismo sono tre: il multiculturalismo (quindi l’uso politico della religione nello spazio pubblico), la prostituzione e la GPA (gestazione per altri, come la si chiama per renderla una pratica accettabile, o «utero in affitto», che è quello che di fatto accade). In questi due ultimi due casi c’entra il denaro, e sappiamo bene quanto l’intreccio tra corpo, sessualità e denaro gravi in maniera asimmetrica nelle relazioni tra i sessi. Non può sfuggire che nell’intreccio tra sessualità e denaro è il potere che fa da collante: questo aspetto lascia abbastanza senza fiato se ci entriamo dentro davvero: come può essere che in nome della libera scelta comprare un corpo di donna sia pensato come un lavoro? Sia nella prostituzione che nella GPA c’è in gioco il corpo, il corpo riproduttivo e sessuale. Ricordo molto bene come nel 2001 si urlava che «questo mondo non è in vendita»: il mondo non è in vendita ma i corpi delle donne possono esserlo senza che ciò sia avvertito come una stridente contraddizione?«My body my choice» è una bellissima espressione ma occorre chiederci di che corpo parliamo e in che ambito nasca la presunta scelta, in quali condizioni e in quale contesto socio-economico-culturale. Per quanto riguarda gli altri due temi, prostituzione e GPA, è come se sparisse il fortissimo impatto del neoliberismo perché, nel primo caso, mi pare abbastanza evidente che stiamo parlando di un’oppressione, di un dominio manifesto: fuori dai denti, al di là delle «magnifiche sorti e progressive» di chi può guadagnare anche 1000 € per un’ora, comunque sei al servizio di chi ti compra, e non stai lavorando, sei in una condizione di schiavitù de-umanizzante. C’è dunque una problematica legata al possesso e al denaro in connessione con la sessualità. Anche nel secondo caso, a meno che non ci sia la gratuità assoluta, come potrebbe avvenire tra due amiche o due sorelle, c’è la forte pressione del denaro e la spersonalizzazione, una sorta di de-umanizzazione dell’esperienza della maternità e della generatività. Certamente ci siamo evolute e siamo diventate capaci di separare i sentimenti dalla sessualità, ma qui si parla di essere incubatrici, e non si considera il prodotto della contrattazione, ovvero un nuovo essere umano. Marea ha provato a proporre in questi 30 anni una visione laica e critica, cosciente però del fatto che negli ultimi anni è diventato sempre più difficile, se non impossibile, trovarsi tra femministe e transfemministe a discutere in modo civile e produttivo. Per esempio sul multiculturalismo penso che siamo in presenza, a sinistra e in parti di pensiero femminista, di un diffuso relativismo rispetto a una religione in particolare, l’Islam, mentre non ci sono problemi nel criticare il cattolicesimo o l’ebraismo. È come se, in qualità di femministe e di sinistra occidentali, avessimo giganteschi sensi di colpa ancestrali rispetto alla presunta «religione delle vittime». Le nostre amiche antifondamentaliste e non multiculturaliste ci dicono senza mezzi termini: «Ma che cosa avete nella testa? Noi non consideriamo il mondo occidentale, o l’Europa, un tutt’uno unico, quindi in quanto occidentali e quindi europei tutte e tutti cattolici e credenti: perché voi ci considerate solo come islamici?». Lo stereotipo della donna velata e dell’uomo barbuto alimenta l’invisibilità di donne e uomini laici che lottano, anche a costa della vita, per la laicizzazione di società nelle quali la religione è ancora l’unica legge e il modello dominante per il comportamento delle donne, la loro libertà e i loro diritti. È inaccettabile se sei femminista e di sinistra. I nostri rapporti internazionali come Marea ci legano in particolare alle attiviste della Secular conference, lo straordinario gruppo che lavora in un’ottica anti multiculturalista anche con l’associazione Secularismis a women issue (Siawi): parlo di Maryam Namazie, MariemeHelie Lucas, Gita Sahgal, Inna Shevchenko e molte altre. In particolare, Inna Shevchenko è stata per me una folgorazione alla Secular conference del 2014, quando la incontrai di persona e decisi di portare in Italia con grande fatica, in una corsa ad ostacolo, il suo libro Anatomia dell’oppressione, scrivendone la prefazione. Questo testo è a mio parere di straordinaria importanza perché è una pietra miliare che testimonia la forza della genealogia e il passaggio di testimone tra femministe di diverse generazioni: Anatomia dell’oppressione, come il titolo stesso suggerisce, critica infatti le tre religioni, islam, cattolicesimo e ebraismo, guardando alla violenza che tutti i fondamentalismi mettono in atto concretamente sul corpo delle donne: velo, niqab, burka, mito della verginità, colpevolizzazione e divieto sulla sessualità, parto, contraccezione, interruzione di gravidanza, matrimoni forzati. In Italia, il libro ha avuto pochissima eco, lo stesso fenomeno di invisibilizzazione che ha subito anche il best seller internazionale Quando abbiamo smesso di pensare di Irshad Manji, primo libro in assoluto nel quale una fedele dell’islam (laica e lesbica) chiede al mondo musulmano di prendere posizione contro l’islamismo per costruire una società laica e di assumersi delle responsabilità sul consenso occulto al fascismo islamico. E altrettanto è accaduto, nonostante sia andata anche con ottimo successo al salone internazionale di Torino, con Anatomia dell’oppressione, tradotto nelle lingue più diverse. In Italia, ingenuamente, io pensavo che case editrici legate a movimenti laici, come ad esempio Uaar (Atei e agnostici razionalisti), che pure hanno di recente tradotto Il vento nei capelli della giornalista iraniana Salwa Salem, potessero avere interesse in Anatomia dell’oppressione. Invece c’è stato un muro assoluto. Poi ho trovato una casa editrice piccola che ha fatto un ottimo lavoro, questo per dirti quanto sia faticoso portare il testo non certo di un’emerita sconosciuta, perché Inna Shevchenko è notissima ed è uno degli elementi di punta della Secular conference e del gruppo Femen. Il muro veniva dal fatto che è nettamente obiettante e critica nei confronti di tutte le religioni, e non solo di cristianesimo ed ebraismo. Non ce l’aveva solo col Papa e il cattolicesimo, contro l’ebraismo e i cattivi israeliani ma anche contro l’islam, dove ancora il conflitto Stato/organismi religiosi non è affrontato. Quello che mi è parso davvero straordinario è come questo saggio testimoni davvero che, quando il femminismo semina, lo fa in maniera ampia e apertissima. Anatomia dell’oppressione è un concetto analogo a quello che è alla base del movimento contro la globalizzazione neoliberista di Vandana Shiva perché il suo celebre Monoculture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura scientifica, che ha iniziato la protesta contro la Monsanto e contro le coltivazioni intensive, comincia proprio dalla disamina di come le multinazionali della soia transgenica stiano distruggendo la coltivazione tradizionale della senape e approfondisce il legame tra coltura e cultura del dominio. La stessa cosa fa anche Anatomia dell’oppressione, partendo da un’oppressione che non è solo simbolica ma è dentro al corpo, mentre Vandana comincia da un seme per descrivere lo scempio della distruzione della biodiversità. Il libro passa allo scanner le donne dalla testa ai piedi e prende in considerazione tutto quello che le religioni – tutte e senza sconti a nessuna – impongono alle donne di violento e umiliante (il sangue mestruale visto come impuro e l’ossessione per la purezza, per citarne una). Ecco una bella prova che il femminismo è vivissimo. C’è e prende strade a volte inattese.

NOIDONNE ha festeggiato quest’anno i suoi 80 anni di vita? Che cosa rappresenta per te questa testata che è stata capace di tutelare con il suo archivio digitale il suo passato e nello stesso tempo continuare a svolgere un ruolo di testata “all news” delle donne in tutti questi anni?
NOIDONNE fa parte della mia vita di donna, di femminista e di giornalista da sempre. Ad Altradimora ho tutta la collezione della rivista, che metto a disposizione delle più giovani, insieme ad alcune altre testate storiche del femminismo di cui ho l’archivio (qui il servizio della nostra biblioteca https://altradimora.eu/la-biblioteca-di-altradimora/. Ho scritto per NOIDONNE fin da giovanissima, anche se poi la collaborazione è stata maggiore con Leggendaria. Penso non sia possibile dirsi attiviste femministe se non si conosce questa testata, che ha fatto da apripista per tutte le altre: dal punto di vista professionale è evidente che le più belle penne italiane, alcune delle quali sono poi per fortuna transitate anche nel giornalismo mainstream, siano venute da lì, come Miriam Mafai, Mariella Gramaglia, Roberta Tatafiore, Franca Fossati e molte altre. Ho imparato tanto dalle vostre pagine, da giovane, e penso che sarebbe importante realizzare delle masterclass su NOIDONNE per giovani giornaliste e giornalisti, in modo da mostrare che, prima di internet, c’è stata una stagione di scrittura, indagine e informazione femminista straordinaria e attualissima. Marea e Altradimora sono a disposizione per questa e altre imprese comuni!


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