Venerdi, 13/04/2012 - Il libro di Chiara Valentini prende le mosse da quattro casi esemplari, che ben disegnano lo stato dell’arte in Italia, oggi, per le tante donne che vogliono un figlio ma che intendono anche continuare a lavorare: due diritti entrati in rotta di collisione, a quanto pare. Francesca (medico di 35 anni, espulsa dall’opsedale dove lavorava quando era rimasta incinta), Fiorella (commessa di 20 anni, costretta con le minacce a firmare le dimissioni per la stessa ragione), Rosalba (infermiera in uno studio dentistico che tace la sua gravidanza, continua a fare le radiografie dentali e poi il figlio nasce senza dita alle mani e ai piedi). E poi l’incredibile storia di Gloria, che riesce a tenere segreta la gravidanza e la nascita della sua bambina, ma che viene licenziata per “maternità abusiva”, un non-reato comunque contestatole dall’azienda. Sono storie vere che introducono il quadro inquietante tracciato nei vari capitoli densi di notizie, dati statistici, informazioni preziose e tante altre storie paradossali. “o i figli o il lavoro” (Feltrinelli, 2012) è un viaggio nella cruda realtà del lavoro negato alle donne che ‘osano’ volere dei bambini in un Paese che straparla di famiglia facendo in concreto meno di nulla per sostenerla. “Oltre un anno e mezzo fa feci un’inchiesta per l’Espresso sulla maternità in Italia, sul mobbing alle mamme che lavorano, sui guai che molte affrontano nel corso della vita lavorativa quando mettono al mondo figli”. Ha scoperto mondi inaspettati, probabilmente… ”In effetti alcuni casi mi avevano molto colpita. Ma all’inizio non credevo che la dimensione del fenomeno fosse così vasta e perfino barbara, direi. Così ho cercato di capire quanto fossero casi isolati e sono andata in giro, ho frequentato blog, ho incontrato sindacaliste, avvocate, Consigliere di Parità e tante mamme. Purtroppo ho constatato che il fenomeno è peggiore di quello che immaginavo e persino di quello descritto nelle ricerche più specialistiche”.
Cioè, intende dire che la percezione, già pesante, neppure corrisponde alla gravità reale del problema?
“Ci sono naturalmente tante situazioni diverse che però hanno una matrice comune: il non riconoscimento della differenza femminile, della normalità per le donne di essere insieme mamme e lavoratrici. In sostanza, nonostante la presenza crescente delle donne nel mondo del lavoro non si è voluto prendere atto delle conseguenze e dei necessari aggiustamenti nell’organizzazione quotidiana. Si rifiuta perfino quella flessibilità minima sugli orari che risolverebbe la vita di tante mamme. Ci si è dimenticati che i bambini, oltre che una gioia privata, sono anche un fattore di crescita per tutti. Non è un caso che i paesi che fanno pochi figli - come l’Italia e il Giappone - sono anche paesi in declino”.
Le sue sono osservazioni di buon senso suffragate dai numeri dell’economia e della demografia. Ma perché non se ne prende atto?
“È un fatto. In Italia C’è come un rifiuto ad affrontare sul serio questo tema” .
Di chi sono le responsabilità, a suo avviso?
“Prima di tutto dei governi, in particolare quelli di centrodestra, che non hanno fatto nulla per costruire condizioni di accoglimento delle donne e della maternità, al contrario di altri paesi europei, come la Francia e la Germania, per non parlare del mitico Nord Europa”.
Non le sembra un paradosso, in un Paese in cui c’è la mitizzazione della famiglia?
“Sì, ma solo di quella tradizionale, i Pacs o i Dico non possiamo neppure sognarceli. Il contraltare di questa ipocrisia è che per la famiglia reale non si fa nulla o sempre meno. Soprattutto il peso di un welfare che non c’è ed è stato scaricato sostanzialmente sulle donne, madri e nonne. Lo Stato, in generale, ha dato pessimi messaggi se pensiamo per esempio agli asili nido - lasciati sempre più in difficoltà con tagli progressivi di fondi. Intanto si è coltivata l’idea che dei bimbi fino ai tre anni è meglio che se ne occupino le mamme. Tutto questo ha incoraggiato i datori di lavoro a considerare le donne in maternità un fastidio, un peso se non addirittura una rovina economica. Soprattutto nelle piccole aziende le gravidanze sono vissute come una catastrofe, nonostante l’80 % del congedo sia pagato dall’Inps”.
Praticamente è l’Italia: buone leggi che si cerca sempre più di non applicare…. ma le donne non hanno proprio nessuna responsabilità?
“Viene fuori da certe interviste che hanno interiorizzato scoraggiamento e sensi di colpa. L’atteggiamento ostile verso la maternità si manifesta in tanti aspetti diversi ed è largamente diffuso e tende ad essere accettato come un dato difficile da modificare soprattutto tra le precarie. Molte si infagottano in camicioni per nascondere la maternità, come facevano le ragazze ‘disonorate’ dell’800. È una regressione impressionante”.
E i loro compagni non hanno qualche responsabilità?
“Gli uomini italiani sono stati poco abituati a collaborare in famiglia e anche i bambini non erano affare loro. C’è però qualche segno di cambiamento nei papà più giovani, spesso anche loro segnati dalla precarietà”.
Risalire la china per le donne non sarà facile, così come trovare soluzioni adeguate ad affrontare questa complessità. Quale la sua opinione?
“Sarà dura, sì, ma interventi sono indispensabili anche perché le ragazze nonostante tutto continuano a volere sia il lavoro che i figli. Molte ricerche confermano che questi desideri tra le italiane sono forti e che un mondo così ostile le costringe a vivere con profonde infelicità “.
Il ritorno del posto fisso migliorerebbe la loro esistenza?
“Non c’è dubbio, ma attenzione, il dato ufficiale delle 17/19mila dimissioni nel primo anno di vita del bambino, probabilmente molto inferiore alla realtà, ci dice che parecchie cose on vanno anche tra chi ha un contratto a tempo indeterminato”.
Girando l’Italia e incontrando tante situazioni diverse che stato d’animo ha trovato? Come vivono queste donne la negazione della possibilità di avere un figlio o la costrizione a scegliere tra lavoro e maternità?
“Varia molto a seconda delle situazioni. Comunque va sottolineata l’equazione, ormai chiarissima, tra lavoro e crescita demografica: i figli si fanno dove c’è lavoro che ti da una vita decente, mentre dove c’è disoccupazione o precarietà i figli diminuiscono. La prova è che oggi ci sono più nascite a Bologna che a Napoli. In Emilia Romagna lavora il 62% delle donne contro il 26,3 della Campania. E si è molto puntato sul welfare. Non a caso la ripresa della natalità è stata forte”.
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