Fuori la (cattiva) politica dalla Pubblica Amministrazione Classi dirigenti / 2 - Per aiutare il mercato occorre più Stato, più competenze e più etica nell'apparato pubblico. Intervista a Daniela Carlà
“Nel nostro paese c’è un problema che riguarda complessivamente la classe dirigente. È semplice e rassicurante pensare che siamo solo di fronte a una crisi della politica. La crisi, invece, riguarda tutti i meccanismi di selezione dei gruppi dirigenti e la Pubblica Amministrazione è l’anello che consente alla classe dirigente, nel suo complesso, di essere credibile, di guidare le trasformazioni, di poter realizzare le riforme. Siamo di fronte a un avvitamento della società su sé stessa”. Il linguaggio degli alti funzionari dello Stato solitamente è misurato, attento a calibrare espressioni e concetti. Le riflessioni che ci affida Daniela Carlà, al contrario, sono nette e a tratti impietose. Sono la summa di un lungo percorso di dirigenza ai vertici di un Ministero nevralgico come quello del Lavoro e che oggi la vede Presidente del Collegio dei Sindaci dell’INPS. “È indispensabile per i funzionari pubblici recuperare credibilità, sento il bisogno di una cerimonia con un valore simbolico in cui si torni a giurare sulla Costituzione come segno di orientamento valoriale della propria attività, che risponde alle leggi fondamentali, ai valori del Paese”. Non a caso Daniela Carlà è tra i fondatori dell’Associazione Etica PA*e della rivista on line "Nuova Etica Pubblica". “Avverto la difficoltà di assumere la questione del genere nella sua portata nazionale; una classe dirigente attrezzata non può più essere parziale e riguardare metà della popolazione, con eccezioni, deroghe e cooptazioni che sono persino peggiori delle vecchie discriminazioni: sono i tentativi del vecchio di assimilare il nuovo senza innovarsi veramente. L’immigrazione è l’altra questione nazionale in cui registriamo incapacità di governo del fenomeno e difficoltà a coglierne la portata: non si riesce ad uscire da una discussione che prima era ideologica, poi è diventata vecchia e ora annoia. Le continue offese, gravissime, alla Ministra per l’Integrazione Cécile Kyenge se sono prova concreta”. Concordiamo: una Pubblica Amministrazione arretrata e, oltretutto, poco stimata e non solo per i continui episodi di corruzione. C’è un troppo di leggi inapplicate, un eccesso di incomprensibile burocrazia, un continuo evocare riforme che non arrivano mai… “Ci può essere il paradosso di cambiamenti senza riforme e di leggi di riforma che non provocano cambiamenti. Le ravvicinate riforme nella P.A. rischiano davvero di non generare cambiamento e innovazione. Il cambiamento deve essere interiorizzato, intenzionale. Occorre individuare gli agenti del cambiamento, radicarlo, intridere le cose di cambiamento, monitorare e valutare i processi. Il cambiamento ha anche bisogno di tempi, e questo non c’entra nulla con i ritardi o con la burocrazia inutile. Parlo dei tempi necessari per fare le cose utili. Il problema non è nell’avere poche o troppe leggi, ma nel cambiarle continuamente e nel farle susseguire velocemente, nel non avere il tempo di lasciarle sedimentare e valutarne gli effetti. E attenzione: dietro l’ansia di continuo cambiamento ci sono spesso i soliti interessi che si mobilitano per non rimettere in moto risorse e per non distoglierle dal vecchio utilizzo. Decretare i limiti e l’inadeguatezza del nuovo appena emerge è, apparentemente, una operazione presentata come rivoluzionaria, in realtà è il vecchio che sopravvive e che resiste a una differente allocazione delle risorse e dell’attribuzione del potere”. Resta il fatto che siamo appesantiti da un apparato costoso e tutto sommato poco efficiente. “Il punto è che c’è troppa burocrazia legata alla politica, quindi il problema non è l’assenza della politica ma, al contrario, l’eccesso di politica che ha prodotto funzionari servili e non sempre capaci, spesso non di carriera ma a termine, scelti perché rispondono a qualcuno. Domandiamoci perché difficilmente i dirigenti pubblici diventano Capo di Gabinetto, eppure la legge lo consente e non si può certo sostenere che non ci siano in giro competenze adeguate”. Come mettere lo Stato in sintonia con i bisogni dei cittadini e ridare vigore ad un progetto organico è questione aperta e non sembrano esserci soluzioni a portata di mano. “L’unica via concreta è partire dalla P. A. e dal suo ruolo, dalle competenze, dalla chiarezza sulle cose da fare e dalla capacità di farle con i relativi meccanismi di valutazione. Questo è prioritario anche rispetto alla discussione sui sistemi elettorali, che pure reputo urgente. Non vi è sistema elettorale che tenga senza una P.A. in grado di realizzare le scelte. L’efficienza della P.A. è importante anche per attivare meccanismi di mercato, perché l’economia ha bisogno di un’amministrazione che la sappia ‘accompagnare’. La presunta enfasi sul mercato da parte di chi ogni giorno attacca il sistema pubblico la considero la spia di un atteggiamento di chi in realtà vuole oligopoli o monopoli, sottraendo segmenti al mercato. Il vero mercato, invece, necessita di una P.A. informata e che informa, rivolta a tutti, che incrementa le opportunità di accedere al mercato medesimo”. Però una maggiore flessibilità nel sistema pubblico potrebbe essere d’aiuto a sbloccare la situazione. “Nella P.A. è più difficile dire dei ‘no’ che dei ‘sì’ e può farlo più facilmente un funzionario di carriera rispetto a chi è a termine, flessibile e con maggiori incertezze. Inoltre il limite non è solo quello della legittimità: devo fare bene il funzionario non solo per evitare di incorrere nel reato, ma devo usare le risorse bene e con efficienza. Ecco, forse, quel ‘no’ non lo dirà mai la persona che è stata scelta temporaneamente da un ministro. Penso che i dirigenti pubblici debbano essere, forse, di meno, ma selezionati sulla base di una carriera. Invece, oggi, è la politica che tende alla sua inamovibilità. Una politica fatta di parzialità, non più di partiti ma di persone, tende inevitabilmente ad appoggiarsi a funzionari contigui e così il sistema si autoalimenta peggiorando se stesso. Invece quello nella P.A. è il lavoro più bello che ci sia, e il più difficile. Un lavoro che non si improvvisa, che richiede studio e attitudine. Va ripensata e rilanciata la funzione del dirigente pubblico, che non è solo esperto in questa o quella materia, condizione pure importante, ma persona capace di governare la complessità, di connettere i livelli di governo, di assumere le competenze, di mediarle, di comporre gli interessi, di identificare i bisogni e di progettare un sistema che consenta, sul terreno concreto amministrativo, di identificare gli interessi in gioco e prospettare soluzioni. Non si tratta, sia chiaro, di proporre una nuova gergalità che genera timore e rispetto apparente, ma di selezionare persone in grado di parlare chiaro perché consapevoli di ciò che va fatto”. Le sue tesi sembrano un po’ in controtendenza rispetto al dibattito in atto e che sollecita meno Stato e meno vincoli. “Sono convinta che senza un’amministrazione pubblica che funzioni non ne usciamo. Il problema non si misura a chili: invece di un chilo di burocrazia ne lascio tre etti. Il punto vero è che la burocrazia deve essere di una qualità diversa, mettendo fine al circuito perverso della cattiva politica che genera cattiva burocrazia. La qualità richiede più professionalità e non meno, più capacità giuridica e non meno, più competenze tecniche e non meno, più capacità di dirigere e di mettere insieme le cose. Non vedo altra strada: il nodo è la qualità delle regole e della loro attivazione. Abbiamo bisogno di un meccanismo di selezione che premi le persone capaci di impegno, tenacia, dedizione e competenza: il “talento” non basta”. Ma in Italia, alla fine, tutto si aggiusta…“Dobbiamo comprendere che la risposta non è l’intuizione, non è il coniglio che esce dal cappello, ma la capacità di costruire soluzioni non individuali e neppure improvvisate in un sistema organizzato. Sono convinta che ci dobbiamo credere”.
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