Fuori dallo specchio: quanta autenticità pieghiamo ai social e quanto poco ne vale la pena
Coi nostri personali alfabeti ci raccontiamo al mondo, in un mondo che non c’è. E sempre con lo stesso idioma pratichiamo sharenting, disegniamo relazioni deboli, cediamo dati. Che mondo abbozziamo? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Lavenia
Giovedi, 08/08/2024 - Le realtà virtuali sono tutt’altro che aumentate, rischiano di individuare mondi minus, la cui potente risonanza ambisce a diventare il mondo possibile che abitiamo con più facilità. E ce la fa.
Per i suoi ingressi facili, per le sue risposte veloci, per inattendibilità. Ci fanno risparmiare tempo ed anche energie, sì: coltivare una relazione senza whatsapp è impegnativo. Proporzionalmente a quanto è prezioso.
Guardarsi negli occhi in un momento di gioia o di dolore: quanto poco ha a che fare con un messaggio pieno di cuori e smile?
E ancora: la rappresentazione che di noi diamo in pasto alle piattaforme ci rappresenta veramente? È all’altezza dell’individuƏ che siamo nella realtà? Quanto ingannevole è e quanto addestra l’autocompiacimento a padroneggiare sulla riservatezza, sulla lentezza e sulla veracità.
Quanto deleghiamo della nostra autenticità alle bacheche e ai feed?
E quante competizioni inesistenti rischiamo di ingaggiare? A cosa rinunciamo mentre ci fagocita il mondo Meta? Come i social hanno modificato l’angolatura con cui stiamo nella relazione?
Leggendo Giuseppe Lavenia mi sono riempita di queste domande. Da incallita analogica, di fiera impronta cartacea e dedita al manuale, ho scoperto nella sua voce che sì, ho le mie ragioni, per contrappormi a sentir definire mio figlio un nativo digitale. Per esempio.
Questa definizione mi è indigesta.
Ecco di cosa ho parlato con Giuseppe Lavenia, i cui spunti sono non solo interessanti, ma anche di pratica utilità. Perché, volenti o nolenti, quello virtuale è un piano che non possiamo disertare. Lo possiamo però dominare.
Sentiamo definire i nostri figli e le nostre figlie nativi/e digitali. Le ho sentito affermare che è una definizione alla quale dà poco significato, e lo condivido….
Spesso sentiamo parlare di nativi digitali per descrivere i nostri figli e figlie, quasi come se fossero nati con un dispositivo elettronico in mano. Ma questa definizione rischia di semplificare eccessivamente la realtà. I bambini e i ragazzi di oggi, infatti, non nascono con una competenza digitale innata; piuttosto, sono esposti a una tecnologia che evolve rapidamente e alla quale devono adattarsi. Ciò che manca è una vera comprensione critica di questi strumenti e del loro impatto. Definire i giovani come nativi digitali può farci credere che non abbiano bisogno di una guida o di un'educazione specifica in questo ambito, il che è lontano dalla verità. È cruciale, invece, educarli a un uso consapevole e responsabile della tecnologia, sviluppando competenze che vadano oltre la semplice capacità di utilizzare un dispositivo.
Sharenting: viviamo un’epoca in cui i genitori si stanno appropriando uno spazio di identità dei bambini, raccontando una larga porzione della loro vita. Con i propri mezzi e i propri alfabeti, che sono probabilmente molto distanti da quelli che il futuro adulto utilizzerebbe. È pericoloso. Quali sono gli aspetti più controversi di questa malsana abitudine?
Lo sharenting, ovvero la condivisione online di foto e informazioni sui propri figli da parte dei genitori, rappresenta una pratica sempre più diffusa, ma non priva di rischi. Condividere momenti della vita dei bambini sui social media può sembrare innocuo, ma si tratta di un'intrusione nella loro privacy e nella loro futura autonomia. I genitori, utilizzando i propri mezzi e alfabeti digitali, raccontano una versione della vita dei figli che questi ultimi potrebbero non condividere o approvare. Questo può portare a conseguenze a lungo termine, come la creazione di una "identità digitale" non voluta e non scelta dai bambini stessi, con potenziali ripercussioni sulla loro reputazione e sulla loro autostima. Inoltre, espone i minori a rischi di sicurezza, come il furto di identità e l'utilizzo improprio delle loro immagini.
L’autonarrazione ha aperto grandi strade in termini di definizione non solo della identità, ma anche della autenticità. Può argomentare questo aspetto?
L'autonarrazione attraverso i social media ha rivoluzionato il modo in cui definiamo noi stessi e la nostra autenticità. Raccontare la propria vita online permette di costruire un'identità pubblica che può essere un potente strumento di espressione personale e politica. Tuttavia, questa continua esposizione può anche portare a una pressione costante per presentarsi in un certo modo, spesso idealizzato e lontano dalla realtà. Questo fenomeno può influenzare negativamente l'autenticità delle relazioni e la percezione di sé, poiché si rischia di vivere per l'approvazione degli altri piuttosto che per la propria soddisfazione personale. L'autenticità, quindi, deve essere bilanciata con la consapevolezza dei limiti e dei rischi di un'esposizione continua e potenzialmente manipolativa.
I social hanno in qualche modo modificato anche il modo in cui ci relazioniamo agli altri. È possibile affermare che ci facciamo bastare la realtà virtuale nel dirci in pari con la cura nei confronti dell’altro? Cosa stiamo perdendo sul piano del reale, che stiamo delegando al mondo virtuale? E quanto questo mondo virtuale merita questa delega?
I social media hanno modificato profondamente il nostro modo di relazionarci con gli altri, facendo spesso passare in secondo piano le interazioni faccia a faccia. Sebbene la realtà virtuale possa sembrare sufficiente per mantenere i rapporti, questa non può sostituire completamente il contatto umano diretto. Le relazioni virtuali tendono a essere meno profonde e più superficiali, mancando degli elementi essenziali della comunicazione non verbale, come il tono della voce, le espressioni facciali e il contatto fisico. Questi aspetti sono fondamentali per sviluppare empatia e connessioni autentiche. Affidarsi troppo al mondo virtuale può quindi portare a un impoverimento delle nostre relazioni e della nostra capacità di prendersi cura degli altri in modo reale e tangibile.
Se potesse dare un consiglio solo, uno che condensi al massimo la potenzialità di difesa dell’individuo nei confronti del mondo social, quale sarebbe?
Sviluppare e mantenere un forte senso critico. Questo significa non accettare passivamente ciò che vediamo online, ma analizzare, verificare e riflettere su ogni contenuto. Bisogna educarsi e educare i propri figli a discernere tra realtà e finzione, a riconoscere le manipolazioni e a non farsi influenzare eccessivamente dai giudizi altrui. Coltivare relazioni autentiche al di fuori dei social media e trovare un equilibrio tra il mondo virtuale e quello reale sono passi fondamentali per mantenere una sana autostima e un'identità solida e indipendente.
Cosa lasciare dentro e cosa lasciare fuori dal social network? La risposta è qualcosa che misuriamo ogni giorno, come fosse uno specchio che compulsivo ci istiga a darci una rappresentazione. È faticoso, certo per alcuni versi inevitabile. Per quel poco che potrà interessarvi arrivati a questo punto, che poi magari ci conosciamo poco o forse affatto, la mia opinione è di non affaticarsi. Nessuno ci pensa tanto spesso quanto spesso invece è costretto a leggerci o guardarci in una fotografia.
Di fondo, cosa raccontare di noi è qualcosa che ha a che fare più con il perseguimento della personale serenità e di ciò che riteniamo di noi possa contribuire a fare del nostro mondo un posto migliore, solo questo.
Giuseppe Lavenia (nella foto). È psicologo e psicoterapeuta si occupa di dipendenze tecnologiche ed è presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze tecnologiche, GAP e Cyberbullismo).
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