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Ferrara, la Biennale Donna: Out of time. Ricominciare dalla natura

Ferrara, la Biennale Donna: Out of time. Ricominciare dalla natura

Al via dal 26 marzo la XIX edizione del prestigioso evento dell’Udi di Ferrara che espone opere di 5 artiste: Monica De Miranda, Christina Kubisch, Diana Lelonek, Ragna Róbertsdóttir e Anaïs Tondeur

Venerdi, 25/03/2022 -

Al via la XIX edizione della Biennale Donna, prestigioso appuntamento dell’Udi di Ferrara con l’arte contemporanea al femminile che si svolge a Ferrara dal 26 marzo al 29 maggio 2022.

Out of time. Ricominciare dalla natura” è il titolo dell’evento artistico realizzato a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban e allestito con la collaborazione della Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea del Comune e il sostegno della regione Emilia e Romagna.

Monica De Miranda, Christina Kubisch, Diana Lelonek, Ragna Róbertsdóttir e Anaïs Tondeur sono le cinque le artiste contemporanee chiamate ad esporre presso il Padiglione d’Arte Contemporanea in una narrazione collettiva che intende “sviluppare un pensiero ecologico e una visione critica sul nostro stare nel mondo” e che si concentra “sul rapporto dell’essere umano con la natura, sul vivere su un pianeta sfruttato e sconvolto dai cambiamenti climatici, spesso conseguenze dirette dei dispositivi di potere”. L’urgenza di un’inversione di rotta è fortemente sentita e rende “fondamentale riproporre una visione simbiotica di una convivenza che includa tutte le specie viventi, in cui l’essere umano è parte di un sistema naturale e non il centro di esso”. Il progetto artistico intende quindi sollecitare riflessioni nella direzione di elaborare le possibili nuove possibilità di “co-abitare e stringere relazioni liberatorie” che rifiutino l’idea della dominazione.

Se le precedenti edizioni hanno esplorato la creatività femminile intorno a problemi socioculturali, identitari, comportamentali e geopolitici, in questo nuovo appuntamento il Comitato Biennale Donna (composto da Lola G. Bonora, Silvia Cirelli, Ada Patrizia Fiorillo, Catalina Golban, Elisa Leonini, Anna Quarzi, Ansalda Siroli, Dida Spano e coordinato da Liviana Zagagnoni) con una mostra di respiro internazionale, ha inteso rappresentare “la necessità di ripensare le strutture esistenti e riorganizzare le pratiche consolidate nei campi della società, dell’economia e della natura” connettendosi al “dibattito ecologico in corso” attraverso la ricerca di cinque artiste che “indagano tramite differenti media l’interazione e la possibile alleanza tra gli esseri umani e la natura”.

 

ESTRATTO ESPOSITIVO

MONICA DE MIRANDA (1976, Portogallo/Angola)
Nata in Portogallo ma da genitori dell’Angola, il suo percorso artistico è fortemente influenzato dall’eredità culturale africana e in particolare dal controverso tema dello sfruttamento delle risorse ambientali africane per mano del colonialismo. Grazie ad un linguaggio multidisciplinare che varia dal video alla fotografia, fino all’installazione, De Miranda indaga l’evoluzione ambientale da un punto di vista antropologico, esplorando le convergenze fra stratificazione sociale e il cambiamento dell’ecosistema. Evidenziando la necessità di una maggiore sensibilità ecologica, Monica De Miranda offre quelle che lei stessa chiama “geografie emozionali”, cioè narrazioni urbane che seguono intimi processi identitari.


All that burns melts into air
, 2020 Legno di pino, tende di velluto, piante, HD video 280 × 290 × 240 cm. La video installazione All that burns melts into air è ispirata a un lungo lavoro di ricerca realizzato nell’isola São Tomé, al largo dell’Africa centro-occidentale. Fortemente segnata dal colonialismo portoghese, São Tomé venne forzatamente abitata da schiavi provenienti dall’Angola, Capo Verde, Camerun e Brasile. La presenza colonialista, non solo ha trasformato i tratti architettonici dell’isola ma ne ha immancabilmente segnato il percorso culturale. Nonostante ancora oggi venga considerato un luogo paradisiaco, una meta turistica di richiamo, São Tomé nasconde in realtà i segni di un passato ferito sia da contrasti storici, che da violenze di carattere naturalistico e paesaggistico.

Untitled (Arquipélago)
, 2014 stampa Inkjet su vinile, cavalletto di legno, morsetti di metallo, rotelle, vetro dimensioni variabili.
Il progetto Arquipélago allude alla possibilità di intendere il concetto d’isola come un insieme di mondi naturalistici alternativi dove il paesaggio si evolve in armonia con la presenza umana, senza essere schiacciato da essa. Proposto come un collage di foto prese in varie parti di differenti isole, l’artista ricrea un’ambientazione ideale, immaginaria, un luogo inventato che non deve essere osservato come puro esempio naturalistico, quanto invece inteso come sintesi di una geografia emozionale, un patchwork vivo di ricordi, di scelte identitarie e di riferimenti culturali. L’artista decostruisce la geografia di alcune isole, ma con l’intento di interiorizzarne il tracciato storico, valorizzandone l’unicità e custodendone la forza vitale.

CHRISTINA KUBISCH (1948, Germania)
Appartiene alla prima generazione di sound-artisti. Formatasi come compositrice, Kubisch ha poi sviluppato un percorso artistico incentrato principalmente sulla scoperta di uno spazio acustico e di una dimensione del tempo nelle arti visive. Le sue installazioni e sculture sonore partecipative smascherano il cosiddetto inquinamento acustico silenzioso, esperienza sensoriale essenziale per poter comprendere lo stato di saturazione elettromagnetica del nostro pianeta.

La Serra
, 2017 Cavo elettrico, cuffie a induzione elettromagnetica Dimensioni variabili
Le installazioni di Christina Kubisch esplorano il mondo dei suoni nascosti, poco conosciuti, oppure inarrivabili per l’orecchio umano. La Serra rimanda al desiderio di ricreare una natura lontana, primigenia e incontaminata. È un tentativo di ricreare il suono di una natura antica, un tentativo di creare un’architettura adatta a ospitare un paesaggio esotico con fiori tropicali, piante decorative e uccelli. L’installazione sonora vuole rievocare l’immagine di una giungla artificiale, di una natura rinchiusa e controllata dall’essere umano. I cavi che compongono l’opera non sono semplicemente degli elementi visivi, ma servono anche per permettere di ascoltare i vari suoni naturali registrati dall’artista e trattati elettronicamente in seguito. L’opera alterna il naturale e l’artefatto e presenta un paesaggio sonoro di fatto antropizzato.

Il Respiro del Mare, 1981 Cavo elettrico, casse a induzione magnetica, audio Dimensioni variabili
La prima versione de Il respiro del mare risale al 1981 ed è considerata la prima opera dell’artista a induzione magnetica e altresì la prima che marca il passaggio dalle sculture sonore alle installazioni sonore. L’opera è costituita da due forme identiche, simili a dei labirinti, che tendono a incorporare in una, il suono perpetuo del mare e nell’altra forma il suono costante del respiro. Spostandosi da un labirinto all’altro, il visitatore contempla a livello immaginifico il passaggio dall’oceano al respiro, dall’acqua all’aria. Grazie a piccoli altoparlanti si possono decodificare e sentire le onde elettromagnetiche che viaggiano attraverso il cavo e lo spostamento nello spazio da una forma all’altra consente di mescolare i suoni. In tal modo, emerge l’allegoria del titolo Il respiro del mare.

DIANA LELONEK (1988, Polonia)
Lavora sul concetto di riappropriazione della natura sull’essere umano. Attraverso installazioni, fotografie e progetti partecipativi, la giovane artista origina ecosistemi in cui materiali organici e inorganici si mescolano fra loro con grande armonia, creando un’interdipendenza non solo possibile, ma necessaria. Il suo approccio alla questione naturale viene sempre investigato da un punto di vista culturale, rivelando sentimenti di appartenenza, di perdita e l’urgenza di immaginare un orizzonte di convivenza comune.

Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest
, 2017 Fotografia 100x150 cm
L’opera è stata creata per una campagna pubblicitaria nel centro di Varsavia, organizzata dal collettivo Sputnik Photos, in risposta alla smisurata e prepotente alta densità abitativa che dal 2017 si registra in quella che era la più estesa e incontaminata foresta europea, la Foresta di Białowieża, in Polonia. Nel progetto fotografico l’artista cancella completamente la presenza umana, e al suo posto riporta il mondo vegetale, proprio là, dove è stato estirpato. Edifici abbandonati diventano così terreno fertile sul quale prendono vita nuovi ecosistemi che a poco a poco si riappropriano di ciò che un tempo era loro.

Center For The Living Things, 2016 10-12 Oggetti vari a vetrina 4 vetrine waterproof con sistema di ventilazione e copertura in plexi ciascuna vetrina: 120x80x30 cm+ base 120x80x70 cm Center for the Living Things è un progetto che l’artista sviluppa dal 2016, volto a raccogliere oggetti comuni, il più delle volte gettati dalle persone perché considerati spazzatura, che ospitano forme organiche vive e mutevoli. Analizzando criticamente l’Antropocene – l’era che stiamo vivendo attualmente – l’artista propone soluzioni alternative, processi incentrati sull’approccio trasversale e soprattutto equo fra l’umanità e le altre specie. La collezione, raccolta preziosamente in vetrine, riprende il metodo di esposizione di esemplari rari in musei di storia naturale e suggerisce la necessità, ma anche l’inevitabilità, di una corrispondenza radicata fra mondo umano e mondo naturale.

RAGNA RÓBERTSDÓTTIR (1945, Islanda)
La sintesi artistica di Ragna Róbertsdóttir, dall’approccio interdisciplinare di forte predisposizione minimalista, si concentra sul valore dei materiali naturali come la pietra lavica, l’ardesia, il lino o la paglia, utilizzati per ricreare una topografia intimista del mondo naturale. Il legame viscerale con la terra è un punto focale nel suo percorso artistico e l’impulso contemplativo che ne deriva, evidenzia da un lato la magnificenza dell’ecosistema, ma dall’altro anche la sua innegabile e mutevole fragilità.

Untitled
, 1989 Pietre laviche (64 pezzi) 15 x 134 x 33 cm
A partire dagli anni Ottanta, l’artista ha iniziato a lavorare con pezzi di lava solidificata, ritagliati in varie forme e misure. Le sue sculture sono ricavate da blocchi di roccia finemente tagliati che trasmettono una potenza ancora attiva e un senso di leggerezza senza tempo, quasi come se fluttuassero all’interno dello spazio fisico. Il materiale che compone l’opera è un tipo particolare di lava grigia e porosa che si trova in Islanda. In particolare si tratta del basalto, una roccia di origine vulcanica piena di crepe e buchi che sono causate dalle bolle di gas intrappolate dentro la materia durante l’eruzione del magma.

Saltscape, 2018 Sale marino e di lava nera, vetro 75x75 cm ciascuno, 6 opere
La serie Saltscape, osservata da una certa distanza, induce a pensare a delle fotografie oppure a delle radiografie. Questi lavori sono il risultato di un lungo e meticoloso processo in cui il sale marino o il sale di lava, mescolati all’acqua, vengono versati in un secondo momento su lastre di vetro. Con l’evaporazione dell’acqua il sale aderisce sempre di più al vetro. Il risultato presenta delle forme astratte e misteriose, come se fossero degli organismi unicellulari, ammassi di galassie oppure paesaggi in miniatura.

ANAÏS TONDEUR (1985, Francia)
L’approccio artistico di Tondeur è radicato nel pensiero ecologico e si inserisce in una pratica interdisciplinare. Il suo lavoro viaggia su vari binari, collegando l’arte alle scienze naturali, all'antropologia, alla geologia, alla filosofia. Il nucleo centrale della sua pratica artistica riguarda il nostro pianeta e la sua evoluzione. Attraverso studi di ricerca e resoconti speculativi presentati sotto forma di installazioni, disegni, video e fotografie, l'artista riflette su altri modi di vivere e di essere nel mondo che non fossero quelli antropocentrici. Le sue opere propongono un rinnovamento delle nostre modalità di percezione della natura ed esplorano possibilità diverse per narrare il rapporto di quest'ultima con la cultura.

Petrichor
, 2015-2018 Video installazione Dimensioni variabili
L’opera artistica invita gli spettatori a riflettere sul cambiamento urbano. L’indagine unisce pratiche alchimiste, finzione, ricerca sul campo e si estende su vari territori urbani, sulle tracce del petrichor - l’odore unico e inconfondibile dell’odore del suolo dopo la pioggia. Questo neologismo è un termine composto da petro – pietra e icore – essudato o sangue degli dei e fu coniato negli anni
Sessanta da due scienziati australiani. Petrichor si riferisce al processo mediante il quale la pioggia e la terra interagiscono tra di loro per produrre quel particolare odore. Questo lavoro cerca di evidenziare come tale reazione sia inevitabile e naturale, e di come l’essere umano cerca di eliminarla nelle città. Attraverso l’installazione quasi onirica lo spettatore è invitato a riflettere sulle potenzialità del suolo e la sua interrelazione con altri elementi. Respirando il suolo possiamo sentire il petrichor, ma il rischio sempre più presente nelle zone urbane è respirare la nocività con cui la terra è intrisa.

Memory of the ocean
, 2014 21 fiale in vetro (h17x4 cm), mensola doppia (240x10 cm) con led incorporato, 12 fiale in vetro (dimensioni variabili), mensola (120x10 cm) con led incorporato, mappa retroilluminata (120x70 cm), monitor, audio Il tempo è un concetto su cui l’umanità s’interroga dai tempi atavici. In particolare la percezione del tempo rappresenta un interrogativo costante nella storia della nostra società. L’artista ci propone una riflessione diversa, che deborda interamente dalla prerogativa dell’essere umano sulla concezione del tempo. Anaïs Tondeur ci presenta un’altra prospettiva, ossia la percezione attraverso i cicli temporali degli oceani. La sua ricerca si basa su trentatré campioni di acqua oceanica, raccolti lungo la circolazione termoalina. Tale movimento collega tutti gli oceani del pianeta da circa 1500 anni. Le acque che costituiscono l’installazione sono state raccolte a diverse profondità, partendo dalla superficie per arrivare fino a una profondità di 8.000 metri.


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