Elvira Seminara, I segreti del giovedì sera, Einaudi
Se la vita durasse una settimana, per Elvis e i suoi amici oggi sarebbe giovedí. Infatti è di giovedí che s’incontrano. Per scrutarsi, raccontarsi le novità, fare bilanci dentro un mondo che si scompone sotto i piedi...
Martedi, 08/06/2021 - Da qualche anno il mese di ottobre è festa al quartiere Pigneto a Roma: esplode “Inquiete”, il festival interamente dedicato alle scrittrici. Tra le tante iniziative, accanto alle tradizionali presentazioni, vengono proposti dei “Ritratti di signora”, imperdibili spazi di autrici che raccontano altre autrici, di cui sono appassionate. Un paio di edizioni fa, il programma annunciava un ritratto di Clarice Lispector. Mi ci sono precipitata benché, lo confesso, non conoscessi l’autrice che la presentava. Si trattava di Elvira Seminara. Ricordo che ne uscii stordita per l’entusiasmo contagioso verso l’autrice brasiliana, che mi spinse senza esitazioni ad acquistarne il bellissimo “Legami familiari”. Mi era anche rimasto addosso il ritmo pacato ed elegante delle parole della Seminara, lasciandomi dentro l’impressione di un appuntamento che prima o poi sarebbe arrivato.
E infatti sono inciampata nel suo ultimo “I segreti del giovedì sera” e ho raccolto senza esitazioni quello che ho subito percepito come un segno. Sin dalle prime pagine mi è stato chiaro il motivo per cui la scrittrice siciliana ami tanto la sua collega brasiliana: a entrambe piace scrivere racconti, entrambe danno decisamente poca importanza alla trama e molta, moltissima alle descrizioni dei risvolti, degli sguardi, degli spicchi di paesaggi, che poi è appunto la cifra delle più grandi autrici di racconti.
“Un turbine di vita e di parole tra Woody Allen e Il declino dell’impero americano” annuncia la copertina. Un gruppo di amiche e amici di mezza età che si incontrano il giovedì sera, buttando sui tavolini, tra aperitivi e caffè, i loro scivoloni, le curve a gomito, i tuffi e gli entusiasmi, gli amori e le cadute. La narratrice, che di questa combriccola fa parte, osserva e descrive tutti e pare quasi non vista. È come se gli altri gareggiassero per comparire in scena, mentre lei gareggiasse per restare nell’ombra. Per la verità, nessuno le chiede con convinzione come stia, ma a pensarci bene nessuno lo chiede a nessun altro. C’è infatti un profondo senso di solitudine che serpeggia tra queste persone, condito da una generosa dose di narcisismo e una bella spolverata di egoismo. È come in quel gioco della sedia, in cui tutti corrono in cerchio in attesa che la musica cessi, ma qui la musica non smette e loro sembrano condannati a inseguire se stessi. Se capita che la narratrice chieda dei particolari, lo fa “per dovere”. Li osserva con estrema tenerezza e, a tratti, senza pietà. In realtà, sembra più interessata all’espressione dei loro volti e all’increspatura del cielo che alle loro confidenze che infatti, quando arrivano, lei prontamente devia, ordinando da mangiare.
Tutto intorno la interessa, purché a distanza di sicurezza: “Il signore distinto va verso lo sportello e spostandosi muove un odore di talco. In una mano ha i moduli e nell’altra una busta di melanzane e peperoni. Penso a sua moglie che cucinerà la caponata, dietro ogni anziano curato c’è una donna attenta e paziente, curata. Dietro ogni donna curata c’è una donna atterrita”.
E poi c’è lei, la Grande Protagonista: la Sicilia. Abbacinante come la luce sulla scogliera, profumata come i cannoli sbriciolati nei piattini, spudorata come la pioggia che si abbatte senza vergogna. E, soprattutto, c’è una natura catanese che, impudente, se ne frega: si arrampica in modo impossibile su muri e su ringhiere, si scatena con le onde contro gli scogli, cambia d’abito all’improvviso e si diverte a sorprendere i suoi abitanti, e ti sembra di vederla bearsi. È lei la padrona indiscussa: “Il cielo colava sulla cupola come un inchiostro blu, era denso e la immobilizzava”. Il mare si gode il sole, la “bellezza scombussolata e malferma” del borgo, delle barche, della luce. “Il petto gigante del mare si gonfia e si affloscia, a ritmo, come se un cuore enorme gli battesse dentro”.
Elvira Seminara ha il dono di una scrittura scoppiettante e raffinata insieme, ci delizia con frecciate intinte di ironia che calzerebbero a pennello su quelle nobildonne elegantissime da cui non ti aspetteresti mai una parola fuori posto, e poi con un sorriso serafico e una frase perfetta le senti stendere il più atroce nemico: “E aveva ragione, le ho detto, i registi francesi sono impareggiabili nel degustare le disgrazie come se fossero tarte tatin e viceversa”.
Tra battute perfide sul tempo che lascia segni sin troppo evidenti sui volti, c’è posto per improvvise sorsate di delizia: “ – Da quando è morto mio padre gli parlo spesso come se fosse Dio, - ho detto – cioè chiedo a entrambi le stesse cose, e quando vanno a buon fine non distinguo, non so esattamente chi ringraziare dei due. Non so a Dio, ma a mio padre che era un po’ vanitoso farà piacere questa prossimità”.
La seconda di copertina riporta una presentazione di Elvira Seminara che è un perfetto imperdibile manifesto in cui molte donne, e forse anche qualche uomo, si riconosceranno. Ma non lo diranno mai: “Abbiamo 59 anni, alcuni di noi hanno smesso di tingersi i capelli e di fumare, altri hanno cominciato la dieta e la Recherche, però dicendo che la rileggono. Facciamo finta di credere a un sacco di cose: che dimostriamo al massimo 48 anni, che non siamo depressi ma disincantati, che quella non è pancia ma colite. Che il vino rosso fa bene, e il caffè allunga la vita. Abbiamo avuto case allagate e idee geniali, spesso contemporaneamente. Alcuni hanno doppie vite, doppio lavoro, doppio mento, doppia sim. A teatro ci addormentiamo, e in tv vediamo lo stesso Montalbano tre volte, convinti che sia la prima. Abbiamo voglia di ridere ma ci commuoviamo spesso e diamo la colpa al polline. Ci angoscia l’idea di dimenticare la password. Crediamo ancora negli sconti, più o meno in Dio, nelle creme antirughe, nei concerti del primo maggio e nei sughi senza conservanti, e quasi tutti nel primo Battisti e nel primo Battiato, il primo Von Trier e il primo Paul Auster. Conviviamo con malattie autoimmuni, vicini razzisti, gatti anaffettivi, pc pieni di virus, aumenti di stipendio, di peso, di autostima, ma combattiamo il colesterolo, la fine della sinistra, gli specchi troppo illuminati, le sanatorie, i leggins di ogni tipo, i bicchieri di plastica, l’irrilevanza, la frenesia del Pil, i rumori di deglutizione. Ogni tanto siamo felici, senza motivo, senza bisogno d’indagare. Ci innamoriamo, andiamo in Messico e poi torniamo. Abbiamo detto milioni di volte le parole stress, motivazioni, analisi, percorso, adesso diciamo più spesso pillola, spreco, cuore, meraviglia. Il vocabolario si restringe e ansima, nel silenzio troviamo nuove gradazioni. Guardiamo il meteo sull’iPhone, più volte al giorno, e la notte per quello dopo. Mettiamo in carica. Domani sole”.
I personaggi sono, ciascuno a modo suo, irrisolti e nevrotici, perché in effetti “ognuno di noi è una convivenza organizzata (…)”, e siamo tutti indaffarati dal fatto che “non è che non abbiamo futuro, (…) ne abbiamo troppo, non ce l’aspettavamo questa deroga, dobbiamo farci i conti, e però è troppo anche il passato, e ce ne vergogniamo, vuol dire essere vecchi (…). C’è questo spazio smisurato del possibile (…) la nostalgia è un baratro, ma cos’è meglio, rincoglionirsi di antidepressivi o andare su Tinder? (…) Io non ho mai avuto trent’anni come adesso”.
Nessuna pietà qui per le storie d’amore, anche perché “Noi nasciamo interi, ed è l’amore che ci spacca in due, l’amore toglie pezzi, per questo rende più fragili, dipendenti, sognatori, ti svela ciò che ti mancherà per sempre”. Eppoi “La coppia non è una casa, è un caseggiato” con tante ombre apposate intorno, e “ogni storia è un’infezione”. Coppie sfatte, sfilacciate, vite ostruite e altre ricominciate, perché insomma “Dobbiamo smetterla (…) di andare sempre alla ricerca di sangue occulto nei pensieri”.
E poi c’è la dichiarazione di amicizia più bella che io abbia mai sentito: “Tu sei un buon posto, Cesare, per me”. E tutto quel distacco e quella distesa di indifferenza che la narratrice manteneva tra sé e gli altri all’improvviso si sfalda, nel momento esatto in cui intuisce che gli amici sono “in pericolo di felicità”. E allora comprende che si stanno allontanando e che ne sentirà la mancanza, e quanto siano importanti.
Una scrittura ricca, pastosa, generosa: “La Germania ha la sua neve dolente, la Spagna ha vortici allegri di nostalgia, ma per noi siciliani è diverso. Noi non abbiamo parchi alberati che piangono foglie, e comunque abbondano, in quei pochi, piante carnose e sempreverdi, e fiori in tutte le stagioni. Il sole pieno non si addice alle rotture”.
Affascinante il modo in cui la narratrice/scrittrice svela i suoi processi di ispirazione e le sue riflessioni sulla scrittura: “La letteratura è comunque una profezia. Se la rivolgi al passato, fa tornare indietro le cose. E le puoi riscrivere come vuoi”.
E ancora: “In fondo cominciamo a scrivere per questo (…) perché ci sentiamo in pericolo. E quando diventi adulta, quasi in salvo, continui a farlo per questo, per mantenere il pericolo. Perché ti tiene viva, sulla soglia, instabile e dunque più percettiva, risonante. Perché vieni da lì, e l’intimità col dolore, la confidenza del guasto sono il tuo centro, la parte più vera e antica di te. (…) È la tua casa”.
E ditemi, vi prego, se avete mai udito o letto una descrizione più splendidamente calzante di una persona che scrive: “(…) e io ho aggiunto i dolori fantasma (comprensibili, ha detto Olivia, dato che allevo fantasmi).” Allevo fantasmi. Lo riscrivo e lo rileggo per la meraviglia di sentirlo ancora e ancora. Allevo fantasmi.
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