Sabato, 20/07/2019 - Partiamo da una premessa, che sembra una questione di lana caprina, ma è invece, come tutte le questioni linguistiche, importante per capire il senso reale e profondo della legge 1445 approvata il 17 luglio e conosciuta con il nome “codice rosso” che dovrebbe aiutare a combattere la violenza contro le donne.
Codice rosso evoca uno stato di emergenza, un pericolo imminente, ma passeggero, che va affrontato con misure eccezionali fino a che il pericolo perdura.
Non è ancora chiaro, a questo governo, che la violenza contro le donne, domestica, sessuale con maltrattamenti di qualsiasi natura, non è un fenomeno emergenziale e da affrontare con misure repressive e securitarie, ma è una discriminazione profondamente radicata nella nostra società, basata sul genere e spesso derivante da atteggiamenti patriarcali e dalle norme sociali correlate.
Di questo non si parla nel provvedimento e soprattutto non si prende atto che c’è assolutamente bisogno di un impianto giuridico strutturato che renda concrete le norme della Convenzione di Istanbul (che ricordo è legge dello Stato) e di finanziamenti cospicui, regolari e permanenti come chiedono da anni coloro che si occupano seriamente del contrasto alla violenza, e di un cambiamento culturale che inizi con la sensibilizzazione fin dall’infanzia e quindi dalla scuola, su temi come la parità, il rispetto, gli stereotipi.
Analizziamo quindi questa riforma punto per punto, nei suoi 21 articoli, per spiegare perchè la riteniamo inefficace e non adeguata, pur rilevando che alcune misure sono sicuramente condivisibili e utili.
Gli articoli da 1 a 3 del ddl intervengono sul codice penale prevedendo, a fronte di notizie di reato sui delitti di violenza domestica e di genere, che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale. Alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta. Il pubblico ministero, entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato e nel caso scattano le indagini di polizia giudiziaria.
L’obbligo dei tre giorni però è impraticabile lì dove le procure sono più piccole e sotto organico e nel provvedimento non si prevede alcun potenziamento delle procure, dando più mezzi alle Sezioni “Fasce deboli” dei Tribunali, o creandole dove non ci sono.
Questo criticità è emersa già nelle audizioni in Commissione Giustizia e nel parere del Csm, inviato al Ministero della Giustizia.
Inoltre non essendo stata eliminata la possibilità di delega alla polizia giudiziaria e, sempre a causa della carenza di organico nelle procure, le donne saranno sentite da carabinieri e polizia, anche per reati molto gravi. Ma la cosa più inquietante è che non c’è nessuna previsione che le donne, dopo la denuncia, siano messe in sicurezza e in protezione nel momento della loro convocazione. Questo aumenta il pericolo per le donne ancora conviventi con il maltrattante.
Le norme riguardanti il divieto di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, vengono rafforzate e punite con la reclusione da sei mesi a tre anni per chiunque violi gli obblighi o i divieti previsti dall’autorità giudiziaria. Questa è una buona cosa, ma perchè, ci chiediamo la norma riguarda solo gli ordini di allontanamento del tribunale penale, e non quelli del tribunale civili come rilevato da molte associazioni nelle audizioni e come era stato richiesto con un emendamento dalle opposizioni?
Sicuramente importanti le misure che puniscono, con la reclusione da uno a 5 anni, il delitto di costrizione o induzione al matrimonio (il cosiddetto matrimonio forzato), che colpisce chi “con violenza o minaccia costringe una persona a contrarre vincolo di natura personale o un’unione civile” con pene aggravate se i fatti sono commessi ai danni di un minore (su questo ricordiamo che era stato presentato un disegno di legge ad hoc a firma dell’opposizione)
Così come è importante aver inserito nella legge il reato che punisce chi realizza e diffonde immagini o video privati, sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone rappresentate per danneggiarle a scopo di vendetta o di rivalsa personale, così come chi le ‘condivide’ on line. (il cosiddetto revenge porn)
La maggior parte delle misure sono però relative all’inasprimento delle pene per i reati di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori, per l’omicidio aggravato dalle relazioni personali, di cui all’art. 577 c.p., estendendo il campo d’applicazione delle aggravanti e consentendo l’applicazione dell’ergastolo anche in caso di relazione affettiva senza stabile convivenza o di stabile convivenza non connotata da relazione affettiva, per chi causa lesioni permanenti personali gravissime, come la deformazione o lo sfregio permanente del viso. Come abbiamo già detto queste misure non sono la risposta al fenomeno della violenza. L’uomo violento che arriva ad uccidere la propria compagna, a volte anche i figli, con modalità spesso raccapriccianti non è inibito o dissuaso dal compiere questo atto perchè sa di incorrere in pene più pesanti. Non sono per lui un deterrente, anche perchè spesso dopo aver posto fine alla vita della sua compagna si suicida.
Mentre può avere un qualche effetto inibitorio l’inasprimento delle pene per i delitti di violenza sessuale che, in caso di violenza su un minore di dieci anni, prevede un minimo di 12 anni fino a un massimo di 24 anni di reclusione. Così come la possibilità per i condannati per delitti sessuali in danno di minori, di sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, legati anche alla valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari.
Ci trova assolutamente d’accordo la norma sulla formazione per il personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia penitenziaria per cui la legge prevede l’attivazione di specifici corsi di formazione, da anni viene richiesta su tutto il territorio nazionale ed anche nelle più piccole e lontane stazioni di polizia e dei carabinieri; ma perchè questa risulti una misura efficace è importante investire concretamente e con risorse finanziarie e umane sui corsi formativi. Ci chiediamo inoltre perchè lo stesso obbligo di formazione non sia previsto per i giudici e per i consulenti tecnici d’ufficio, anche alla luce delle troppe sentenze che ultimamente ci hanno lasciate disorientate.
Positivo anche l’obbligo della comunicazione, tra la cancelleria penale e quella civile, dei procedimenti penali a carico di violenti per poter dar modo ai giudici civili di prendere decisioni più motivate in materia di affido o di separazione, perchè allora non estenderlo anche al Tribunale dei minori?
Perchè inoltre non sono stati previsti interventi per accorciare i tempi del processo penale per i casi di violenza domestica che fa rimanere le donne, che coraggiosamente denunciano, in un limbo pericoloso e che spesso dopo un iter processuale lungo e farraginoso vedono vanificare tutte le loro aspettative da una prescrizione che azzera il processo?
Ma la cosa che ci fa affermare che questa riforma è uno specchietto per le allodole è la clausola sull’invarianza finanziaria che all’art.21 recita “Dall’attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Come possiamo pensare di attuare una riforma senza risorse?
Quello che necessita per un vero e reale contrasto al dramma della violenza contro le donne sono interventi integrati a 360 gradi: potenziamento dei Centri antiviolenza (che troppo spesso si reggono solo sul volontariato). Cav che possano avere la possibilità di sostenere attivamente le donne nei percosi di autonomia e indipendenza economica.Un serio monitoraggio, una valutazione ed un’analisi di chi opera in questo campo perchè le risorse, non debbano essere sprecate verso associazioni o gruppi che non assicurino una ottima preparazione e organizzazione nella “filiera dei servizi” di prevenzione, accoglienza, recupero e reinserimento.
Tutto questo presuppone delle risorse che non sono state ritenute necessarie da questo governo, che ha preferito indirizzare la sua politica verso la sola repressione dei reati, non dando ascolto e voce neanche nel dibattito parlamentare a quelle forze che avevano presentato emendamenti, come l’incidente probatorio, importanti e migliorativi e che non sono stati presi in considerazione.
Le critiche a questo provvedimento arrivano da tutte le maggiori organizzazioni che si occupano da decenni di violenza contro le donne: la Rete D.i.RE , Donne in Rete contro la violenza, Telefono Rosa, Differenza donna, e tante altre. Tutte loro che operano sul campo e hanno un’esperienza ed una competenza indiscusse, sono rimaste inascoltate e denunciano un atteggiamento di chiusura, assolutamente inammissibile da parte di chi solo a parole dichiara di voler combattere questo dramma sociale.
Si è persa un’occasione, ancora una volta, per attuare un provvedimento efficace e significativo.
Qui il testo di legge http://images.go.wolterskluwer.com/Web/WoltersKluwer/%7B47e3548b-cfd3-40d8-821f-ed20f377c271%7D_disegno-di-legge-1200.pdf
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