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Disabilità e il prendersi cura. Come donna

Disabilità e il prendersi cura. Come donna

Nella Giornata Internazionale dedicata alle persone con disabilità il racconto della mamma di Arianna e Chiara. E' l'inizio di uno spazio dedicato alle donne caregiver e al Dopo di Noi

Martedi, 03/12/2019 - Esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi, per quanto possibile vorrei restare fedele ad entrambi. Questo scriveva lo scrittore Albert Camus nel secolo scorso, rispecchiando fedelmente il mio stato d’animo di donna e di madre caregiver di oggi.
Mi chiamo Marina Morelli e sono madre di due giovani donne con autismo, Chiara di anni 34 e Arianna di anni 24. Le mie figlie ed io siamo per aspetti diversi oppresse dal Sistema. Non sappiamo perché accadano certe cose nella vita e, poiché non sopporto le perdite di tempo, non mi sono mai chiesta il perché e proprio a me siano nate due figlie con autismo, mi sono anzi sbrigata ad accettare la realtà delle cose, a farmi aiutare da persone competenti e a intraprendere un lavoro su me stessa che mi consentisse di stare loro accanto al meglio delle mie possibilità: nessuno può essere preparato a tanto, e comunque non lo ero io, che ancora nel 2010, VUOTA, scrivevo, di ME:

Come un involucro
che non ha ancora raggiunto la
misura,
io me ne vado per il mondo
contenendo tutto il mio dolore.
Mi sono svuotata di me.
Ho accolto e
fatto posto a tutta la mia
sofferenza, e
faccio attenzione che, questa,
non debordi nel mondo intorno,
che tanto apprezza,
anzi chiede,
l’apparente allegria.
A volte, mi apro, ed è proprio
allora,
quando un’ombra di verità
oscura il mio sorriso
che, se non sono sola,
io mi sento spudoratamente sola:
spogliata del mio dolore,
carne viva
… e VUOTA DI ME.
(VUOTO DI ME, 26/10/2010)


È stato un percorso difficile e ancora lo è. L’autismo ha rubato alle mie figlie e a me porzioni considerevoli di felicità e ancora continua a farlo, sebbene in misura oggi minore del passato. Poi, c’è la gente, che mediamente è indifferente, a volte si comporta male, raramente si avvicina e resta, anzi di gente ne abbiamo vista sparire tanta. Il mondo bandisce più o meno apertamente quelli come noi, per questo è importante dire che, in una società come la nostra, chi decide di prendersi cura seriamente di una persona con grave disabilità diventa un oppresso del Sistema. Essere caregiver è molto difficile. Per questo oltre alla persona disabile a me sta a cuore anche la condizione della donna madre caregiver, che sotto certi punti di vista è un po’ un tutt’uno con il proprio figlio. Perché quando in una famiglia nasce una personcina bisognosa di attenzioni particolarissime qualcuno deve stargli accanto, per curarla, sostenerla, educarla, aiutarla a sviluppare quante più autonomie possibile, sia dal punto di vista motorio che emotivo, e di solito è la donna a farsi carico di questo immenso compito, sia per una predisposizione naturale che per un modello culturale. Ciò comporta delle rinunce che, molto spesso, comportano a loro volta la mancata costruzione di una propria autonomia economica e l’impossibilità a muoversi liberamente. Si crea così di fatto un rapporto di dipendenza col proprio figlio. Questa sopravvivenza a cui il Sistema riduce questi nuclei familiari, unita al fatto incontestabile che la persona con grave disabilità è quella che fa più fatica a crescere e a individuarsi rispetto alle proprie figure genitoriali di riferimento e all’altro fatto incontestabile che i genitori in genere e specie noi mamme per un istinto di protezione con molta difficoltà e lentezza accettiamo la separazione dai figli specie se deboli, induce nella maggioranza dei casi rapporti di tipo fusionale.
Così, i giorni a dedicati ai nostri figli passano per noi madri sino a costituire una vita intera. Vita che però io ho percorso attraverso le brutture infernali del mondo con sguardo fisso alla bellezza: la bellezza tutta intorno a me, la bellezza disarmante delle mie figlie e di tante, anche se sempre troppo poche, persone incontrate durante il percorso. Come se la bellezza, sempre presente in tutte le cose, fosse per me un tramite grazie al quale percepire il mondo e le cose del mondo e così vivere sprazzi di una felicità altrimenti negatami dalle circostanze avverse della mia vita mortale, ed essere madre mortale di due figlie con autismo è il mio personale handicap data la circostanza.
Ed è terribile essere ridotta a far ricorso alla grande verità che rappresenta nelle vite di noi tutti la Morte per introdurre il discorso sul Dopo di Noi, perché il Dopo di Noi dovrebbe essere in un nucleo familiare un percorso di autonomie personali da fare assieme: persona con disabilità e caregiver familiare col supporto dei Servizi Sociali e Sanitari, invece, l’espressione Dopo di Noi è l’incubo di ogni amorevole genitore di persona con disabilità. Tragedia. Sennonché, oggi, Dopo di Noi è anche il nome che si è dato alla Legge dello Stato 112/2016.
La Legge Dopo di Noi riconosce il diritto ad avere una vita autonoma adulta a tutte le persone con disabilità e per realizzare questo si basa sul Progetto Individuale di vita. A tal proposito, c’è un altro tema che come madre mi sta a cuore: sapere che le mie figlie avranno una vita soddisfacente in termini qualitativi, che il Progetto Individuale delle loro vite terrà conto del loro carattere, delle loro esperienze passate e in divenire, dei loro bisogni e delle loro preferenze.
È evidente che in ciò io sono portavoce delle mie figlie, le quali da sole non potrebbero rappresentare tutti i propri bisogni né esigere i propri diritti. Quindi, per fare loro un buon servizio, dico che la Qualità della Vita, secondo me, non può essere misurata in termini quantitativi, ma attraverso la valutazione dell’importanza attribuita e della soddisfazione percepita in quegli ambiti della vita applicabili a tutte le persone e qualitativamente significativi per l’esistenza di ogni individuo. Fonti autorevoli avallate da esiti estremamente positivi testimoniano che non una diagnosi funzionale, ma il benessere percepito e il grado di soddisfazione rappresentino la guida più autentica nella stesura del progetto individuale di vita autonoma adulta di tutte le persone con disabilità, che ricordiamo hanno tutte pari dignità e diritti.
Ma la nostra Società si rivela troppo spesso arretrata rispetto alle Leggi di civiltà del nostro Stato, c’è necessità di politiche sociali inclusive vere che, come prevede la convenzione ONU, diano la possibilità reale a tutte le persone con disabilità di avere accesso con la massima libertà possibile di movimento alla vita della collettività, incluso alle attività sportive, ma anche alle attività culturali, che rappresentano un tipo di nutrimento che permette l’attivazione dell’immaginazione, quel movimento interno, dell’anima, che è unica chiave d’accesso allo spessore della vita. Perché, la libertà di movimento e quindi l’accessibilità creano uguaglianza e consapevolezza, cadono le barriere insomma e il muro dell’isolamento! E poiché l’immaginazione attende alla creatività in genere, ecco che il concepire e concepirsi in modo creativo favorisce il processo di individuazione che permette di cominciare a distinguere se stessi da ciò che è altro da se. Dare la possibilità a tutti di avere accesso al mondo, di godere della propria vita, promuove un grande senso di benessere e lo rende visibile all’esterno e comprenderete che questa è una chiave d’accesso, una lettura dei bisogni, che diventa fondamentale per sostenere nella propria vita autonoma adulta chi si sente un tutt’uno con le proprie figure genitoriali di riferimento e fa difficoltà a esprime i propri bisogni, soprattutto, in assenza di competenze linguistiche.
Affronterò dunque in questa rubrica il discorso sul Dopo di Noi parlando a voi lettrici e lettori di questa coppia molto difficile da separare: persona con disabilità e persona che se ne prende cura. Lo farò con particolare attenzione, non me ne vorranno i papà, alle madri caregiver. Inoltre, parlerò della Qualità della Vita delle persone con disabilità e dei loro caregiver.
D’altro canto, come ci ricorda James Hillman, l’attenzione alla qualità ha a che fare con il notare, quindi con il rendere noto ed io proverò a dare voi notizia nel modo più onesto possibile di ciò di cui sono a conoscenza, purtroppo personalmente, cercando di evitare che questa narrazione divenga però un resoconto soggettivo dei miei sentimenti: quindi, ad esempio invece che dire che le nostre vite sono un percorso doloroso, come espresso nella mia poesia VUOTO DI ME, dirò che trattasi di un percorso troppo spesso solitario, nel senso che include defezioni e abbandoni, e che in questa solitudine si deve essere pronti a fronteggiare molte crisi, crisi che in questo caso non sempre attendono a un cambiamento, specie se non supportati da persone competenti, e che la mancanza di un supporto, quindi di una riabilitazione, può rendere difficoltoso se non impossibile avere accesso alla Legge Dopo di Noi come di diritto. E questa è una ingiustizia, un danno e una beffa del Sistema.
Tuttavia, sinceramente, l’ultima delle mie esigenze come madre caregiver in prima linea per i miei cari è quella di cercare comprensione o espandere il dolore al di fuori di me. A tal riguardo, chiudo con una citazione di Simone Weil: Meccanica umana. Chiunque soffre cerca di comunicare la sua sofferenza – sia maltrattando, che provocando la pietà – per diminuirla; […] Come è possibile liberarsi da quel che è simile pesantezza? E io non voglio esser pesante, anche per non buttarmi troppo giù.


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