Il 3 dicembre, Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità: la riflessione di una mamma di due donne con autismo
Cronache di femminicidi, di rese di conti, di disastri annunciati, di abusi di droghe e alcool, di stupri, di bullismi, di stragi, di ogni genere di corruzione a tutti i livelli, dell’indifferenza e dell’abbandono: la normalità del mondo consiste di incoerenza e di follia in potenza a piede libero. Poi, c’è un sottomondo, in parte invisibile, quando emerge, fatto di qualche gridolino che tanto spaventa, di innocue stramberie che disturbano moltissimo, è un mondo anormale che per girare tra noi, sedicenti normali, va preso per mano e tenuto sotto controllo. È il mondo della disabilità. Per entrare nell’impero fuori controllo della normalità i disabili devono essere il più possibile normalizzati, per non disturbare col loro disturbo.
Che confusione. Viene subito da chiedersi cosa sia la normalità psichica, ma nessuno, finché qualcuno tra noi normali a piede libero la fa proprio grossa, può stabilirlo con certezza, specie se tutto sembrava normale, se il funzionamento sembrava sano.
Eppure nel mondo del pensiero paradigmatico disturbato, nel quale nessuno si accorge che c’è qualcosa che non va finché non esplode la follia, la persona con disabilità psichica è essenzialmente un paziente, una persona a parole fragile ma considerata in potenza un malato pericolosissimo. La patologia non produce incontro, e se deve partecipare in qualche forma possibile alla vita della collettività, qualora fosse reso possibile deve essere normalizzata, quasi che un comportamento normale fosse poi sufficiente a compensare una diversità percepita a monte come anormalità. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. La questione è tragica perché coinvolge la vita di milioni di persone: le persone con disabilità e di coloro che se ne prendono cura.
Ma quale è oggi l’approccio alla cura?
A voler giudicare da ciò che si osserva quotidianamente, la cura è funzionale all’assetto sociale, rispecchia più le esigenze del sistema che quelle della persona con disabilità essenzialmente posta ai margini. L’approccio è secolare, ma se si vuole cominciare veramente a parlare di “persone” si rende necessaria una revisione.
Qualcuno ha detto che le persone non cambiano, si rivelano. Niente di più autentico, oltre al fatto che il rimanere il più possibile fedeli alla propria percezione sensibile della realtà renderebbe più forti. Invece, così come pretendiamo di formare le cosiddette persone normali a immagine e somiglianza del sistema, ci prendiamo cura delle persone con disabilità pretendendo di normalizzarle.
Il filosofo, saggista e psicoterapeuta statunitense James Hillman sostiene che nella cura della persona con una psicopatologia si dovrebbe distinguere tra delirio e rivelazione.
La nozione di cura è obsoleta, come lo è la società che andrebbe educata a riconoscere la diversità come un valore; si dovrebbe dare a tutti la possibilità di rivelare il proprio grande valore in quanto unica e irripetibile espressione dello scibile umano.
In questo senso, si dovrebbe cancellare dal proprio vocabolario la parola normalità, che non significa niente se volta a definire un essere umano.
Si dovrebbe, per il bene di tutti, porre uno sguardo nuovo sulla persona e, senza precisarlo, anche sulla persona con disabilità, la cui presa in carico dovrebbe essere un ponderoso esercizio di rispetto della sua alterità tutta umana.
L’interesse dovrebbe essere rivolto a chi sia la persona, che incarna in ciascuno un mare di significati antichissimi, e questo approccio sarebbe un cambiamento di rotta, che se sostenuto da politiche sociali innovative anche dal punto di vista culturale ed educativo potrebbe rivelarsi molto liberatorio per tutti aprendo al nuovo la vita di ciascuno, anche nel senso del significato.
Marina Morelli
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