Giovedi, 21/04/2022 - Vi ricordate l’altalena a dondolo, quella in cui uno fa leva spingendo coi piedi a terra e l’altro va in alto, e viceversa? I Diavoli di sabbia ci giocano senza ritegno.
Ma andiamo con ordine.
L’attesa dell’uscita di un nuovo libro di Elvira Seminara è contentezza saltellante, inquieta impazienza. Così, quando la mia luminosa libraia mi ha accolta sorridente con la sua nuova opera, sapendo che mi ci sarei avventata, io già pregustavo il nuovo viaggio avviluppante. Ma certo non immaginavo fino a dove, questa volta, mi avrebbe portata.
Nei suoi ultimi lavori, l’autrice ci aveva proposto dei testi che travalicavano i canoni tradizionali del romanzo. Con Diavoli di sabbia, edito da Einaudi, Elvira Seminara si fa più audace, e i canoni li scompagina completamente, fino a estinguerli. Ma attenzione: non è un mero esperimento, è un accurato strumento.
Qui, infatti, accade qualcosa di inaudito: la voce narrante non esiste. Esistono solo le voci dei personaggi che si inanellano, come in un gioco, come in una cantilena, come una partita di ping pong. Botta e risposta impazziti che si avvicendano incatenandosi e rivelando un disegno magistrale, facendo così di questo stile sovversivo un vero e proprio personaggio.
L’esergo di Angelo Maria Repellino è un impeccabile modo di introdurre il lettore in questa storia: “Darling, lo so. Il mio continuo lamento ti attedia, /questa eterna altalena tra ebbrezza e malore/il mio rammarico è forse volontà di commedia. / Grande è la buffoneria del dolore.” È esattamente questo che accade nelle pagine a seguire: un’alternanza tra ebbrezza e malore, un battere i piedi del dolore che è, appunto, buffoneria. Ed ecco suggerita l’immagine azzeccata: questo romanzo è un’altalena a dondolo, sì, di quelle appunto in cui due persone si siedono alle estremità e fanno su e giù alternandosi, a turno spingendo con in piedi e facendo volare l’altro. Ci abbiamo giocato tutti, a volte un po’ svogliatamente, facendo saltini insipidi, altre sfidando la paura e spingendo forte, soprattutto se volevamo spaventare chi sedeva al lato opposto. Così si muovono i personaggi di questa storia: dapprima una spintarella, poi un colpo più forte nella speranza di disarcionare la controparte, poi in risposta un altro e così via. Solo che qui ogni colpo è una battuta. Frasi taglienti scagliate senza mai curarsi se cadranno di punta sull’interlocutore, se e quanto lo feriranno, se l’altro riuscirà a schivarle. E la ragione è molto semplice: l’altro non esiste, o meglio non conta. I dialoghi si svolgono sempre a coppie, ma nessuno dei due sembra accorgersi davvero di star parlando con qualcuno. Sono infatti monologhi a due travestiti da dialoghi, tra coppie che si avvicendano, da un capitolo all’altro, cambiando di volta in volta il partner, come in una danza tradizionale, come una tarantella in cui dopo ogni giro si lascia la mano del compagno di ballo e si raccoglie quella del ballerino della coppia di fronte, e così via in un intrecciarsi che sembra casuale ma non lo è affatto, e che si chiude in un cerchio perfetto.
È difficile decidere dove iniziare a raccontare questo romanzo, e forse l’ideale è partire dall’incipit:
- Stanotte è stato bellissimo, l’ho ucciso
- Bene Iris. Posso chiudere la porta?
Abbacinante, inappuntabile. C’è tutta l’autrice in questa alzata di sipario: la sua capacità di scaraventarti senza scampo in una situazione, la curiosità inesorabile con cui ti accalappia, quello scoppiettante sorriso di riconoscenza che solo lei riesce a offrirti, quando senti che stai per decollare verso un’avventura formidabile.
E da lì non c’è più tempo per fermarsi, è tutto un seguirla all’impazzata attraverso le danze frenetiche di donne e uomini che rovesciano sulle pagine parole incontinenti, pensieri debordanti spesso totalmente sconnessi tra loro, sogni che sconfinano nella realtà e fantasie agghindate da verità.
A un certo punto vi accorgerete che state venendo giù sparati lungo una discesa ripidissima e, capelli e volto schiacciati dal vento, rasenterete deliziosi lapsus dei personaggi; donne che hanno diretto un’agenzia matrimoniale e che ora preferiscono vendere scarpe, perché più gratificante, “nascono già accoppiate”; gustosissimi nonsense, “lei occulta troppo i pensieri, dottore! Ha i pori otturati dalle congetture!”; imperdibili perle di saggezza, come la consapevolezza che tenersi un uomo, anziché un cane, ha i suoi vantaggi: lo si conosce, e non sporca a terra; improvvisi guizzi di impegno, “e comunque, l’ecologismo senza lotta di classe è giardinaggio”. Incrocerete volti divertenti e altri bui, siederete in un pub, in un ospedale, o in una macchina che cerca costruzioni fantasma in valli abbandonate. Insomma, tenetevi forte perché viaggerete nel mondo coloratissimo e agitato cui l’autrice ci ha abituati.
L’amore, come in altre sue opere, ne esce piuttosto ammaccato, soprattutto quando è trascinato tipo cadavere al seguito, perché a quel punto “l’amore diventa un dolore siamese, indistinguibile, autoalimentato. E se l’altro è un’estensione di te, come ti puoi staccare?”. In questa incapacità di comunicare, è esemplare un passaggio in cui emerge crudele l’incapacità di esprimere il proprio amore, dove un uomo che vorrebbe dichiararsi riesce solo a dire un “Ti detesto. Ti non-sopporto”.
Insomma, lo sentirete addosso “il vento che striscia dalla finestra [e] smuove l’odore di polvere e resti”.
A mano a mano che continuerete la discesa, seguirete i botta e risposta chiedendovi dove andranno a parare, ma vi accorgerete presto che sono come il micidiale bambù, che “fermi i germogli ma tornano di nuovo, come i pensieri fissi”. Perché non c’è un punto di arrivo nel cerchio, potrete solo ricominciare il circuito. E, al massimo, sentire che la testa gira.
A tratti, tuttavia, è un gioco drammatico, sono flussi di coscienza a due, sono solitudini gigantesche: “Solitudine provata in due. Duitudine”. In quasi tutte le conversazioni, a domanda corrisponde una risposta che è solo il proseguimento del pensiero lasciato a metà nella battuta precedente, come a dire l’impossibilità del vero confronto. Ed è così evidente da essere paralizzante. Specchi impietosi di tante conversazioni monologanti. Come se ognuno di loro si trovasse di fronte a una figura di carta, e ci conversasse animatamente. L’immagine esemplare dell’incomunicabilità. Il rimbombo agghiacciante del vuoto. La frammentarietà del nostro vivere confuso, il trionfo dell’egocentrismo.
“Montiamo pareti fonoassorbenti, e diffusori automatici di essenze, per smemorarci”. Ecco, è come se questi monologhi fossero un rumore di fondo il cui scopo è quello di stordire sia coloro che li pronunciano, sia coloro che li leggono. È un continuo ribaltamento tra ciò che si cerca e ciò che si trova, è come “l’unico difetto delle vetrate (…), che ti specchiano mentre guardi fuori. E cerchi il mondo, invece”. E in questo stordimento, l’ideale sarebbe scomparire: “Pioveva, c’era buio e non avevo l’ombrello, ma mi piaceva l’acqua addosso, avrei voluto farmi sciogliere dall’acqua, sbavare, scontornare, ripulire, cancellare, farmi punire e umiliare dall’acqua (…)”.
Sparire, alleggerire, togliere il superfluo: “Avrà notato le mie pareti tutte libere, senza quadri, mensole e stupidaggini. Detesto le testimonianze del tempo, la voce delle case addosso, che ricordano troppo, petulanti, recriminatorie… e la loro ossessiva traspirazione, quella polvere, che ricatto!” perché in fondo “l’assenza di tracce e di ricordi dà un senso di libertà, di scorrimento”. Al diavolo anche la memoria e il passato: “Bisogna vivere semmai ogni giorno come se fosse il primo, senza passato, montando progetti e fantasie, chi se ne frega della memoria, questa mania di spremere i vecchi per estrarne la sapienza, ma che ce ne frega del passato, beviamoci il presente, no? Ci metti una vita a imparare a vivere, e quando alla fine diventi brava devi fermarti a ricordare? Vivi, bella mia, vivi e basta, e se sbagli è meglio, vuol dire che hai fatto! Chi non mangia non fa molliche”.
Anime inquiete che hanno un modo di stare al mondo “un po’ di traverso”. Ma che, nella loro stravaganza, hanno un’acutezza di pensiero meravigliosa: “Sì, ci sono buchi anche nelle giornate, e dentro cade di tutto, cose minime e innocue, virgole, refusi, sillabe di cose non dette, scaglie e pezzi di un sogno, e si decompongono, diventano germi, virus del pensiero, scarti, avanzi, starnuti, droplet, insomma tutti lasciamo una mappa (…)”
Donne che collezionano i più improbabili gruppi WhatsApp, tra autoaiuto e ricette. Personaggi molto attenti a ciò che dicono perché “con le parole puoi taroccare i sentimenti”. Poi, a tratti, spunta inattesa la saggezza più limpida, come quella di una giovane su sua madre: “A volte sembra svanita, indifferente, ma è solo da un’altra parte, dove si annoia di meno. È impossibile capire le proprie madri, è come leggere il tuo diario in una lingua sconosciuta, o guardare la tua foto in controluce”. E ancora: “Io penso che i genitori sono figure sovrastimate”.
Elvira Seminara è geniale, ironica, impietosamente cinica. Me la immagino divertita e serissima mentre costruisce queste scatole cinesi di storie mobili. E, non paga, per spiazzare oltremodo il suo pubblico, decide di non fargli fare quasi pause, così all’interno di ogni capitolo non ha inserito i punti alla fine di ogni battuta, e ti sembra di sentirla lì a suggerirti: non fermarti, fidati, trattieni il fiato e vai. Ma questo, per il lettore, ha un effetto collaterale: non riuscendo a staccarsi, dilata ferocemente l’insofferenza verso il mondo esterno che si permette di esistere, interrompendo talvolta la lettura.
“Dust Devil, il diavolo di sabbia, un vortice che ti afferra, e ti trasforma”. Trent’anni fa ne fecero un film horror: il diavolo di sabbia celava un assassino che uccideva le persone sole e non amate. Non conoscevo questo fenomeno meteorologico e sono andata a cercarmelo, ho scoperto che è frequente nei territori desertici e che non è legato a un temporale, ma anzi necessita di stabilità dell’atmosfera. È un vortice ciclonico che inghiotte tutto, e poi si dissolve alla prima corrente fredda. Semplicemente perfetto: i diavoli di sabbia di Elvira Seminara si muovono proprio sotto un cielo apparentemente sereno, ma girano impazziti su se stessi, da soli per definizione e destino, creando trambusto e polvere e confusione e danni. E poi, puf, si afflosciano.
Voci che si intersecano, grovigli di storie, spezzoni di frasi sbagliate e di volti ammutoliti, battute brillanti, intelligenze spiazzanti.
E poi accade, la città tracima dai tombini e si avvolge attorno ai personaggi, che trascinano parole disarginate e diventano “un tombino scoperchiato”: “a un tratto salta la grata, e affiora tutto il sottosuolo, i calcinacci, i sassi, un rivolo d’acqua (…)”. Di lì a poco, un rumore subitaneo, “si sarà rovesciato il bidone in cortile”, o forse è il fracasso dei pensieri.
Alla fine del libro ci attende un’immagine incantevole: “C’è una poesia che dice così: le persone che sogniamo, quando escono dai nostri sogni si incontrano e si salutano, invisibili solo a noi, e si mischiano al vento della vita. Questo è il modo per restare tutti insieme, sognati e sognatori. È vita aumentata per tutti”: è bello pensare che ciò accada anche tra i personaggi dei diversi libri di Elvira Seminara, chiacchieroni professionisti che sospendono il loro ciarlare nevrotico, escono dalle pagine delle varie opere e incontrano i loro colleghi, mischiandosi al vento della vita. Speriamo che, almeno tra loro, a nostra insaputa, riescano finalmente ad ascoltarsi.
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