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Darcy Ribeiro e la Saudade

Darcy Ribeiro e la Saudade

Un senso di malinconia e solitudine che nasceva sia nei marinai che lasciavano la propria terra sia da coloro che invece restavano in patria ad attendere il ritorno. Dei canti simultanei di uomini che attraversavano il grande mare per la bramosia di scope

Giovedi, 21/02/2019 - “Se nossos governantes não fizerem escolas, em 20 anos faltará dinheiro para construírem presídios.”
(“Se i nostri governatori non faranno scuole, in 20 anni saranno necessari soldi per costruire le prigioni.”) ‒ Darcy Ribeiro

Figlio del farmacista Reginaldo Ribeiro dos Santos e dell’insegnante Josefina Augusta da Silveira, lo scrittore, antropologo, educatore ed uomo politico Darcy Ribeiro nasce il 26 ottobre del 1922 a Monte Claros (Minas Gerais in Brasile). Frequentò gli studi nella sua città natale, entrò nella facoltà di Medicina ma la abbandonò ben presto decidendo di lavorare in ambito di scienze politiche.

Si laurea nel 1946 in Sociologia con una specializzazione in etnologia presso l'Universidade de São Paulo e l'anno successivo iniziò una decennale peregrinazione nella regione del Pantanal, nelle foreste del Brasile centrale e in Amazzonia, che lo portò a convivere con alcuni popoli indigeni: i Kadiwéu, cui dedicò la sua prima monografia (Kadiwéu, 1950), ed i Kaapor. L’antropologo è tra i fondatori dell'Universidade de Brasília, di cui divenne il primo rettore, fu ministro dell'Educazione ed ebbe altri incarichi durante la presidenza di João Goulart (1961-64).

In seguito al golpe militare fu costretto all'esilio: soggiornò in America Latina (Uruguay, Venezuela, Cile e Perù), in Europa ed in Algeria. Rientrò in Brasile nel 1976, dove venne eletto vicegovernatore dello Stato di Rio de Janeiro; nel 1991 fu eletto senatore e l'anno seguente divenne membro dell'Academia brasileira de letras.

Durante il lungo periodo dell’esilio si dedicò alla progettazione di programmi di riforma ed alla composizione dei cinque volumi dei suoi Estudos de antropologia da civilização. Pubblicò il primo romanzo, “Maíra” (1976), al suo rientro in Brasile. Seguirono “O mulo” (1981), la fiaba “Utopia selvagem” (1982) ed il romanzo “Migo” (1988).

Nel 1991 seguì l'opera memorialistica “Testemunho”, nel 1995 il saggio di antropologia culturale “O povo brasileiro”, la raccolta di saggi e discorsi “Noções de coisas” (1995) ed i Diarios índios (1996). Oltre ad una ricchissima produzione saggistica si ricorda il libro autobiografico pubblicato lo stesso anno della morte “Confissões” ed il libro di poesie pubblicato postumo nel 1998 “Eros e Tanatos”.

Personalità poliedrica e indipendente, ha dato un contributo rilevante, culturale e progettuale, in ciascuno dei settori in cui ha operato. È morto il 17 febbraio 1997 all’età di 74 anni, vittima di cancro.

Nell’autobiografia scrive: “Termino esta minha vida já exausto de viver, mas querendo mais vida, mais amor, mais saber, mais travessuras” (“Termino questa vita già sfinita dal vivere, ma voglio più vita, più amore, più conoscenza, più scherzetti”).

Il libro “Utopia selvaggia ‒ Saudade dell’innocenza perduta. Una fiaba” di Darcy Ribeiro sarà pubblicato nel mese di maggio 2019 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore con la traduzione di Katia Zornetta e con prefazione di Giancorrado Barozzi.

Il termine “saudade” richiama l’epoca medioevale delle liriche dei Canzonieri galego-portoghesi scritte fra il XII d il XV secolo nelle quali ritroviamo “soydade” e “suydade” con successiva evoluzione del dittongo oi in au. Il fenomeno è insolito e ha diverse ipotesi, ha derivazione dal latino sōlĭtās, solitātis, (“solitudine”, “isolamento”) ma è da considerare la presenza di influssi da altri termini, per esempio dal verbo latino saudar (“salutare”) o da espressioni arabe suad, saudá e suaidá (“profonda tristezza”).

La Saudade va collegata esclusivamente al Portogallo e successivamente alle colonie, una parola intraducibile in altre lingue come similmente accade per spleen, flâneur e sehnsucht. Potremo definirla come una nostalgia, quasi un’aspirazione metafisica di qualcosa di intimo che conosciamo nel campo dell’intuito e che quindi esiste prima ancora di conoscerne l’esistenza. La saudade è collegata alla tradizione marinara del Portogallo che geograficamente è aperto all’oceano Atlantico.

Un senso di malinconia e solitudine che nasceva sia nei marinai che lasciavano la propria terra sia da coloro che invece restavano in patria ad attendere il ritorno. Dei canti simultanei di uomini che attraversavano il grande mare per la bramosia di scoperta e successivamente di commercio e di donne che davanti a scogliere e spiagge s’interrogavano sul possibile rimpatrio. Dunque non possiamo semplicemente tradurre saudade in nostalgia (in portoghese “nostalgia”, “falta”) o solitudine (in portoghese “solidão”) perché è una parola collegata al viaggio, al mare ed alla distanza, a quel sentimento di chi parte e di chi resta congiunto dall’aspettativa di incontro e di riapparizione.

Durante i secoli poeti e scrittori hanno cercato di dar voce a questo sentimento, di narrarlo ed esplicarlo. Giungiamo sino ai nostri giorni con Darcy Ribeiro e quel suo “Saudade dell’innocenza perduta” come se questo sentire non conosciuto temporalmente fosse accreditato nella realtà grazie all’intuito. In questo modo abbiamo un duplice significato del sottotitolo della fiaba “Utopia selvaggia”, la saudade può esser riferita sia alle popolazioni indios ancora viventi nella grande Amazzonia, percependo in loro un’innocenza perduta a causa della violenta invasione dell’europeo; sia alla Penisola Iberica nel sentimento legato al ricordo di quei coloni che lasciarono la patria per trasferirsi in Brasile e di quelle generazioni successive che non hanno mai visitato la terra d’origine ma alla quale hanno sempre sentito in appartenere nel profondo.

“Chi siamo noi, se non siamo europei, e nemmeno siamo indios, se non una specie intermedia, tra aborigeni e spagnoli? Siamo coloro che furono disfatti in quel che eravamo, senza mai arrivare ad essere quel che saremmo stati o avremmo voluto essere. Non sapendo chi eravamo quando permanevamo innocenti in loro, inconsapevoli di noi, ancor meno sapremo chi saremo. […] Stanchi e nauseati dallo sforzo di fingere di essere chi non siamo, imparammo finalmente ad aprire gli occhi e a creare specchi per guardarci.” ‒ “Utopia selvaggia”

Written by Alessia Mocci
Ufficio Stampa Negretto Editore

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Sito Negretto Editore
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