Il racconto ha ottenuto il terzo posto al Premio letterario Laurizia, organizzato dall'associazione umanitaria Battiti e dalla casa Editrice Intrecci
Giovedi, 17/12/2020 - Cieli Immensi di Silvia Alonso
La porta sbatte dietro di me. Dal fondo dei cardini ne sento rimbalzare il rumore pesante, simile al grugnito sordo di un animale ferito. Non ho più tempo per alcun ripensamento, o il tarlo del dubbio si farebbe strada, e da lì il contraccolpo del pentimento.
Voglio lasciarmi alle spalle l’immagine soffocante delle quattro mura che fino a oggi mi hanno rinchiusa in una gabbia di piombo, le pareti strozzate sul mio corpo in una morsa tagliente. Dimenticare l’odore di rancido, esasperazione claustrofobica della mia mente, diventato insopportabile.
Mi riempio i polmoni di un’aria cristallina, concedendo una tregua al tamburo impazzito del mio cuore. Il solo essere riuscita a dire basta mi proietta in un orizzonte che adesso mi sembra sconfinato. Tutto si è dilatato all’ennesima potenza, come se mi fossi trasformata nella regina dell’universo e potessi abbracciarne l’infinita bellezza che per un breve istante sento disvelarsi. Ho come la sensazione che mi stiano spuntando delle piccole ali che mi permettono di emergere a poco a poco, goccia dopo goccia, dall’apnea forzata di un pozzo denso e scuro. Il laccio che mi stringe la gola si fa più lento, la stretta del cuore meno pressante, gli occhi più leggeri. Posso osare spingere lo sguardo più innanzi, guardare l’orizzonte e sentire che il mare della vita non è più solo un peso sovrastante, ma gocce vive con cui riesco a ristabilire, almeno per poco, un primo contatto. Sento respirare ogni cellula della mia pelle, mi nutro di questa sensazione piena, fatta di pura bellezza, il resto può aspettare; il resto è niente e questo è il tutto, l’irripetibile attimo assoluto del presente.
Davanti a me si staglia l’immagine della strada, netta nel suo scorrere. Oceani di asfalto segnano il confine delle mille possibilità che mi si delineano innanzi, ma non so se prevalga l’ansia o la gioia. Spingo lo sguardo fin dove mi è possibile, per cercare invano la rassicurazione di un bivio. Destra o sinistra: nessuno spazio alla sintesi, solo il conflitto della scelta, quello a cui sono sempre stata abituata. Ma la verticalità è implacabile, e io mi sento nuovamente persa, smarrita nella libertà di trovarmi davanti l’intera gamma delle strade invisibili, quelle esistenti e quelle ancora da scoprire. In che direzione andare quando la pagina è bianca e devi riscrivere da capo l’ingorgo illogico della tua vita? Ripartire da zero, questo è il punto. Non sono fatta per i salti nel vuoto e non ho voglia di andare a capo. Troppo questo infinito, per chi per anni si è autocostretta a vivere nel limite delle proprie illusioni, sotto vuoto, nella boccia dei pesci rossi. Respiro lentamente trattenendo l’aria mentre cerco di placare l’ansia. La nuvola nera che si stava abbattendo sembra allontanarsi, e al suo posto subentra il vuoto. È il momento.
Giro le chiavi nella fessura accanto al volante e lascio che i pensieri scorrano fluidi, come se a guidarmi fosse il pilota automatico di una me sconosciuta, che mi abita dentro. La stessa me che da troppo tempo ho fatto tacere e che adesso si sta affacciando timidamente, osando prendere il comando della sua vita. Sembra conoscere la direzione con sicurezza, senza porsi domande. Semplicemente, agisce col suo radar interiore, senza farsi sopraffare dalle circostanze, non ascolta il giudizio altrui, non si lascia paralizzare dalla paura di sbagliare, non teme il ricatto dei propri aguzzini, ma con una determinazione che mi sembra estranea mette le mani sul volante, aziona il motore, schiaccia il pedale e guida. Nella flebile luce del tramonto vedo sfocarsi progressivamente i contorni delle cose, anche loro si lasciano andare per sciogliersi nella natura circostante fino a confluire in un disegno più morbido, fatto di luci e ombre, un sospiro dell’universo prima che cali la notte. Le prime stelle appaiono timidamente sul display della mia automobile e si confondono con i fari della strada, lucciole e lanterne sono la mia unica compagnia.
D’impulso mi ritrovo a frugare negli angoli più remoti del cruscotto per rinvenirne alcuni tesori nascosti, vecchie cassette dimenticate da tempo. Le note graffianti di un rock duro iniziano a intonare un urlo di rivolta che mi fa ritornare viva, come nella mia gioventù. Urla, grida e proteste al vetriolo, bombe a mano sull’incendio della mia vita, esplosioni che appicco esasperata, nostalgica di quella me rivoltosa che era finita chissà dove. La rabbia trattenuta ha il sopravvento, la sento montare dal cratere compresso delle mie emozioni fino a quando esplode incandescente, trascinandosi dietro lapilli, pietre e scintille che mi grandinano addosso. Ogni mio argine è franato, lasciandomi in balia dei miei demoni più oscuri. Mi detesto, mi odio, non mi sopporto più, mi sento solo un completo, assoluto fallimento. Un garbuglio insensato di possibilità lasciate colpevolmente abortire. Non più degno di vita. Vorrei distruggere tutto, mi basterebbe premere l’acceleratore e potrei saltare direttamente in aria. Ma una voce nascosta nel mio profondo mi spinge a frenare, forse l’ultimo residuo di un istinto di sopravvivenza che riesce a farsi avanti, suggerendomi di accostare e calmarmi, così non ho altra scelta che consegnarmi al silenzio.
Come ho potuto tollerare tanto? Come ho potuto lasciargli fare quello che mi ha fatto, farlo arrivare fino a questo punto? Nessun diritto di parola né la libertà di comunicare o di avere amici, sradicata da tutto e da tutti. Solo un lui macrocefalo senza orecchie, un ventriloquo prepotente su cui tutti gli obiettivi dovevano essere puntati. Mai minacce espresse, certo, ma l’eterno, strisciante ricatto, ancor più violento, di un possibile “vuoto” ove mai mi fossi opposta alla sua volontà. Poi lo spettro della follia, quella nuvola nera di terrore in cui mi avrebbe gettata qualora avessi parlato. Sorridere, fingere, tirare avanti per amore di mio figlio, troppo piccolo per capire, troppo fragile per venire spezzato dalle urla costanti delle nostre liti ad armi impari. Sorridere, fingere, sperare che domani sarebbe stato meglio. Sapere nel mio intimo che nulla sarebbe mai cambiato, ma la serenità interiore no, la mia vera bellezza che mi illuminava da dentro, quella nessuno me l’avrebbe scippata. Sapere che esisteva una parte nascosta di me che, malgrado i graffi e le lacerazioni interiori, sarebbe riuscita a restare intatta per tornare prima o poi a brillare, più splendente di prima: questo mi ha spinta a sopravvivere. Sorridere, fingere, resistere. Spingere la mia fede oltre il recinto della violenza. Un giorno sarebbe arrivato il momento giusto. Mio figlio sarebbe cresciuto, avrebbe capito, mi avrebbe perdonata. Ed ecco: quel giorno è arrivato. Per una volta sono riuscita a mettere da parte la mamma e ho fatto prevalere la donna. Quella che lotta e fugge dall’incubo, quella che alza la testa e dice basta. Mia per sempre.
Un’altra vita, un’altra musica. Da questo stesso momento tutto sarà diverso, me lo prometto. Rigiro tra le mani un vecchio nastro, uno di quei motivi malinconici che ti conservano nel cuore la speranza e ti accarezzano dolcemente l’anima come una culla, nelle loro note il movimento del mare, un’onda di schiuma che lascia tesori sulla mia risacca. È il lamento del violino della morna, capace di ricomporre con gentilezza la geografia spettinata dei miei sentimenti. Sento l’archetto del violino toccare le mie corde più nascoste, e senza che me ne dia conto, senza capire cosa mi stia succedendo, irrompo in un pianto liberatorio. Ci sono lacrime che hanno il potere di cicatrizzare l’anima, e queste piccole gocce di rugiada, adesso lo sento, sanno lavare ferite che pensavo ormai croniche.
Un alito di vento mi sfiora le spalle, una presenza sottile che mi tende la mano, un sorriso invisibile che mi illumina il volto. Ora è solo questione di tempo. Verrà la notte e calerà il silenzio anche sul mio dolore, un balsamo alato mi risolleverà leggera, scioglierà la nebbia che mi avvolge fitta, il rancore e la rabbia svaniranno lentamente. E poi, cosa sarà?
D’istinto ho come un’intuizione. Allungo di nuovo la mano nel cruscotto, questa volta con un’altra consapevolezza, sapendo di avervi sempre custodito lo scrigno dei miei più piccoli segreti. Tesori che al mondo esterno appaiono insignificanti, ma che conservano sempre grandi verità. Foglietti mal ripiegati e poi sgualciti, disegni ormai sbiaditi, appunti presi alla rinfusa, poesie abbozzate sulle vecchie scatole di Marlboro, confezioni dimenticate di Arbre Magique, gomme da masticare al sapore di fragola, le uniche che facevano il pallone gigante. Le piccole cose che sanno di nulla, ma ci danno la pace. La mia intuizione non m’inganna, e così trovo subito la risposta alla mia domanda. Dalla capsula del tempo riemerge un flyer colorato, sull’orecchia ormai strappata il nome di un locale notturno che si legge solo in parte, ma per me è come un faro nella notte. Un indirizzo che una volta conoscevo a memoria. La mia oasi dove mi sono sempre sentita libera. Un tempio di pace nascosto tra le dune del deserto, la fede ritrovata tra gli oceani di sabbia. Riportato alle mie latitudini, fatte di umidità e nebbia.
Il locale si trova nella stessa direzione che, inconsapevolmente, il mio navigatore automatico aveva già imboccato. Al termine della campagna pavese, un verde piatto sempre conforme a se stesso, verso il delinearsi delle prime colline del piacentino si erge una piccola Babele di evasione. L’albeggiare di tutte le nostre illusioni giovanili, quando bastava alzare la musica per credere in un mondo migliore.
A quei tempi ero una cubista. La migliore del locale, dicevano. Il Metamorfosi aveva un nome evocativo, qualcosa che andava oltre il solito ideale dello sballo ravvicinato un tot al kilo a cui era consono il popolo della notte. Esprimeva già tutto, come se il mio destino avesse voluto venirmi incontro opponendo un cartello fluorescente, fatto di luci al neon, al corso degli eventi che altrimenti sarebbe stato prestabilito: il lavoro al liceo, la rispettabilità sociale, una famiglia, una bella casa. Quel cartello incrociato per caso imprimeva una deviazione estemporanea, quasi una via di fuga obbligatoria, alla prevedibilità di un progetto standard.
Dovevo potermi mantenere gli studi per laurearmi in lettere e filosofia, trovando l’indipendenza dalla mia famiglia, impresa che sembrava impossibile nella mia realtà ovattata. Dopo, si sarebbe visto. La mia vita era talmente abituata a restare sospesa sulla nuvoletta dei sogni che, nel frattempo, tutto il resto si era dimenticato di farsi vivo sul piano reale, e così mi ero già visto scorrere via il fiore degli anni, rinchiusa in una parentesi di fantasie astratte. Ma una cosa, a parte studiare, sapevo fare. Ballare, liberare la mia anima sulle note della musica e vedere il mio corpo rispondere opponendosi alla legge di gravità e disegnando altre rotte. Una logica circolare e sinuosa fatta di spirali, onde centripete, cerchi concentrici e infiniti, le mie ali aperte per volare che si contrapponevano alle linee sempre rette del mondo del dovere. Allora avveniva il miracolo: una parte di me viaggiava verso altri orizzonti e tutto diventava fluido, magico, libero. La metamorfosi, ero io.
Forse già a quei tempi il mio karma mi inseguiva: la fuga verso altri mondi, la ricerca della pace oltre il soffocamento di una realtà limitata. Ed ecco che il mio Demone sembrava avere risposto, facendomi spingere la meta sempre più in là. Ballare era per me ritrovare un mondo di pace assoluta, che altro non era che un’altra me stessa. Per questo mi ero data un nickname: Ariel, come l’angelo della Scoperta. Scoprire nuovi mondi al di là della logica delle apparenze in cui ero vissuta, e che pareva assillarmi, sembrava la mia nuova missione.
Sono trascorsi gli anni, e ho perso ogni contatto con quel mondo. L’ultima volta che ho salutato il Metamorfosi è stato per comunicare trionfante a tutti i miei amici e colleghi che convolavo a nozze, coronando il sogno di una vita. L’amore che agognano tutte le ragazze, il principe azzurro sul cavallo alato che mi avrebbe liberato dalla prigionia della torre. Qualcosa che non era scontato, per una cubista con aspirazioni esoteriche. La redenzione dopo la colpa, che nella coscienza collettiva veniva a lavare ogni mia supposta macchia. Come se varcare la soglia della pista salendo sul cubo, per la cultura cattolica in cui ero stata allevata, fosse equivalso a mangiare la mela proibita. Persa quella verginità di facciata, troppo forte era stata l’onta della mia famiglia per poter tornare indietro, e il dado era tratto: avrei dovuto pagarne il prezzo con l’allontanamento dall’Eden della mia infanzia. Sposarmi il principale rampollo di una famiglia in vista, per di più innamorata com’ero, era equivalso a riscattarmi dall’ombra ripristinando, perlomeno nella mia immaginazione, gli equilibri smarriti. Non sapevo che non avrei fatto altro che rimandare il problema, consegnandomi a una nuova prigionia che presto si sarebbe rivelata per quello che era: una gabbia dorata al cui interno l’unico canarino cantante era mio marito. Io sarei solo servita da addobbo, una incantevole natura morta sullo sfondo di un quadro apparentemente perfetto.
Ritornare, ora, sarà la sfida. Spezzare per sempre quelle sbarre, rivelarne la vera natura, scrostarne la patina d’oro che le ricopre e imbratta per mostrare il ferro di cui sono fatte, e poi volare via. Ma sono passati quasi quindici anni, e non sono più la stessa. I lunghi capelli biondi, un tempo foltissimi nella mia treccia da favola, si sono assottigliati: allattamento, paure, solitudine e delusioni mi hanno costretta a tagliarli. Per non parlare del fisico, un tempo scolpito dalla ginnastica. Come nei tronchi degli alberi, che ad ogni anno aggiungono un nuovo cerchio fino a quando una piccola sezione può raccontarne ogni loro vicissitudine, il mio corpo ha conservato la memoria di ogni singola prepotenza, e ora mi presenta il conto. Ogni mancata carezza si è trasformata in un piccolo solco sul mio volto, ogni sguardo negato in una nuova smagliatura, le continue oscillazioni di peso, anziché rendere elastica la mia silhouette, le hanno impresso cicatrici indelebili. Tutto è rimasto registrato su di me, e ora mi sento più la mappa vivente del mio dolore che l’immagine sorridente di una donna all’alba dei suoi quaranta, pronta a risplendere nel fiore degli anni.
Ma alla fine ce l’ho fatta: quello che non uccide fortifica e posso dire di avere resistito, come un salice che ha imparato a flettersi alle intemperie del vento senza spezzarsi. Se non più atletica ancora in forma, se non più smagliante ancora piacente. Il fascino aggiunto degli anni, forse il mistero delle mie verità nascoste, ha aggiunto sapore a un aspetto che prima poteva risultare quasi insipido, tanto era impeccabile. La bellezza ha bisogno di imperfezioni per risplendere. Così sento di essere finalmente pronta: voglio brillare della mia luce.
Ho voglia di ritrovare il mio passato e da lì spiccare un nuovo salto verso il futuro. Mettendo in una gigantesca parentesi tutti questi anni, come se un ponte invisibile potesse riconnettere senza soluzione di continuità la me di ieri a quella di oggi, e niente fosse cambiato. Come se, una volta richiusami dietro la portiera della macchina, potessi entrare in un tunnel e da lì la finestra del tempo si aprisse su quegli anni come per Peggy Sue nel film di F. F. Coppola.
Mi faccio coraggio e mi avvicino al locale, fino a parcheggiare proprio di fronte. Con mia sorpresa, non ha cambiato nome. Anche il logo è pressappoco lo stesso, solo un’insegna più grande di quella che ricordavo, ai tempi spostata sul lato inferiore, quasi a non voler disturbare, ora troneggia sull’ingresso principale, illuminata non più dal neon ma da una tempesta di led colorati. Varco la soglia senza esitazione, a dispetto del mio stupore che si fa sempre più grande quando scopro che ad accogliermi all’ingresso non c’è nessun buttafuori, come invece mi sarei aspettata. Anche la cassa pare deserta, anomalia insolita in un giorno ordinario di apertura. Avverto come un segreto strisciante, qualcosa di non detto ma presente nell’aria che serpeggia tra le luci che illuminano il mio passaggio in sala. L’arredamento è rinnovato, riconosco la ripartizione interna degli spazi, ma il nuovo design mi risulta strano, come una foto così rimaneggiata da parere quasi finta, un’intenzione artefatta che la priva della naturale spontaneità.
I pali, poi, posizionati nelle immediate vicinanze dei divanetti laterali, quando una volta i cubi dominavano la pista, mi sembrano delle note stonate in quella vecchia melodia ... a meno che ... la domanda si affaccia spontanea alla mia mente. Finalmente un signore sulla mezza età, dall’aria abbastanza distinta, mi viene incontro con fare incuriosito, lievemente sulla difensiva.
- Sei venuta per esercitarti?
- Prego, scusi?
- Le tue compagne normalmente arrivano verso le dieci, dopo cena, ma tu devi essere nuova. Chi ti ha mandata?
- No, in effetti, non lavoro qui. O meglio: ci lavoravo fino a tredici anni fa ... facevo la cubista quando la gestione era di Maurice. Sono tornata per una breve rimpatriata, una sorpresa ai vecchi amici.
- Ah okay. Ma ora è tutto cambiato, non lo sai?
- Beh, no.
- Non facciamo più discoteca. Questo è un club privato di lap dance. Principalmente facciamo serate per soli uomini, però organizziamo anche serate per coppie trasgressive, di quel tipo, insomma.
Resto completamente basita. Qualcosa nella scansione del tempo deve essermi sfuggito senza che me ne accorgessi, e così mi sono persa più di un passaggio di tutti quei salti che il corso degli ultimi anni ha disegnato. Quanto veloce ha viaggiato la traiettoria degli eventi, sfuggendomi completamente di mano! Ora le cubiste non sono più di moda, e le coppie moderne giocano alla liberazione reciproca scambiandosi i ruoli nei giorni dispari, mentre in quelli pari, con ogni probabilità, si tradiscono tacitamente per sfuggire alla noia.
Ma questo è solo il mio modesto giudizio, le cose bisogna viverle prima di giudicarle, perciò decido di proseguire disinvolta nella conversazione, come se una vocina nascosta mi suggerisse di andare oltre le apparenze.
- Ah, d’accordo. E oggi è il vostro giorno di chiusura?
- Praticamente sì, ma siccome molte delle nostre ragazze non hanno tempo per andare in palestra, allora teniamo aperto qualche ora solo per loro. Mettiamo a disposizione la pista e le sbarre, affinché si possano allenare. Qualcuna coglie l’occasione per dare lezioni private, ma resti tra noi. La pole dance è molto richiesta, oggi. Ecco perché ho creduto che fossi un’alunna di Samantha o di Katiusha. Guarda: dovrebbero già essere arrivate. Se vuoi, puoi sederti e berti qualcosa. Gli alcolici non li serviamo, ma magari una gazzosa ci sta.
Non faccio in tempo a ringraziare che subito una ragazza mora, alta e molto appariscente, fa il suo ingresso in sala. Ha l’aria di venire dall’est, ne riconosco il portamento fiero e lo sguardo penetrante, tipico delle loro bellezze, con quel tocco inconfondibile di esotismo che le rende uniche nel loro genere.
Dopo avermi gettato un primo sguardo indagatore, a cui probabilmente segue la valutazione che non posso essere una concorrente, decide di ammorbidirsi, e la malcelata sfida si muta in un timido accenno di sorriso che ha tutta l’aria di mettere in chiaro che, qualora non l’avessi ancora capito, è lei la leader indiscussa del locale. Raccolgo quel messaggio implicito, e con fare modesto ricambio il sorriso perché capisca che nutro intenzioni amichevoli. Subito dopo la vedo sparire dietro al muretto divisorio che fa da angolo alla consolle, che so segnare il confine tra la sala e i camerini privati del locale. Sorseggiandomi la mia gazzosa cerco di immaginare come riapparirà, con quale vestito, con quale trucco di scena.
Entrano altre due ragazze. Vestono in maniera semplice, tuta e scarpe da ginnastica, e parlando fitto tra loro si dirigono a loro volta ai camerini; nessuna fa caso a me, forse sono convinte che sia un’amica della prima. Quando finalmente questa riappare, vengo colta da uno strano miscuglio di emozioni. Nostalgia, ammirazione e rimpianto. Indossa un paio di scarpe che mi riporta indietro ai miei vent’anni, quando facevo le acrobazie sul cubo. Plateau altissimo, tacco venti, qualcosa che oggi mi risulterebbe proibitivo. Per il resto, ha un semplice abbinamento pantaloncino e top nero, molto più castigata di come la vorrebbe l’immaginario comune. Sale sulla pedana come una tigre liberata che fa il suo ingresso nell’arena e, dopo essersi impregnata le mani di una sostanza vischiosa e bianca che suppongo serva a migliorare l’aderenza, impugna la sbarra.
Mi bastano pochi secondi per capire che non riuscirò a toglierle gli occhi di dosso per il resto della serata. Il mio sguardo le rimane incollato per cogliere ogni singola mossa, ogni volteggio di quella che, solo adesso mi è chiaro, è sicuramente un’arte destinata alle creature mitologiche. Nella disinvoltura di quei movimenti fluidi la sbarra sembra essere il prolungamento del corpo, un perno verso il cielo, creato per fare leva sulla mortalità delle nostre membra ed elevarle alle dimensioni celesti, dove sfiorare gli angeli diventa un sogno possibile. Attorno alla sbarra disegnano vortici le gambe, seguite a ruota dalle braccia, fino a quando tutto diventa fungibile: la testa raggiunge i piedi e i piedi volteggiano al posto della testa. Ellissi, angeli, fiori e poi farfalle sono le molteplici figure di un mandala aereo che a ogni secondo si crea e ricompone, come se a guidarlo fosse un vento invisibile, nell’impermanenza costante delle cose.
L’impulso di seguirla per immergermi anch’io in quella bellezza, protagonista di tale perfezione, diventa irrefrenabile, ma so che non sarebbe possibile. Ho sempre sofferto di vertigini, mi basta salire una scala più alta della norma perché un terrore folle dell’altitudine si impadronisca di ogni mio pensiero, fino a farmi scoppiare il cuore; per non parlare del senso di vuoto che mi afferra, precipitandomi nel baratro del panico, quando devo fare i conti con qualcosa che gira e mi sembra di perdere il controllo, vittima di una qualche oscura condanna. Forse è un messaggio in codice che mi giunge proprio dal mio passato: “sono finiti i tempi delle cubiste, rassegnati, hai perso anche su questo fronte. Non puoi reggere al confronto...”. Già. Eppure ... Una voce improvvisa mi riporta alla realtà, costringendomi a uscire dal mio guscio mentale.
- Sei qui sola?
- Scusa?
- Beh: sei un’amica di Katiusha venuta a guardare gli allenamenti?
- Non proprio. Lavoravo qui anni fa. Volevo buttare un occhio e vedere se c’era ancora qualche vecchia amica da salutare...
- Alla faccia dell’occhio: sembravi ipnotizzata! Se vuoi provare, oggi potrebbe essere la tua giornata. Un’alunna mi ha dato buca, perciò ho del tempo libero.
- Mmm, non credo sia una buona idea. Soffro di vertigini.
- Ma hai detto che eri ballerina, o sbaglio?
- Sì, ma facevo la cubista. Piedi puntati per terra, niente volteggi per aria.
- Guarda: ci siamo passate tutte dalla paura, ma alla fine è più facile di quanto sembri. Se hai la preparazione atletica e un passato da ballerina, ti ci vorrà solo qualche mese e poi decolli. Credimi ...
- Sarebbe bello, sei gentile. Ma non ho più l’età per queste cose.
- Ah, ti capisco: l’età. Se ti dicessi che ho trentotto anni, mi crederesti?
Faccio un salto sulla sedia. In effetti, solo ora mi accorgo che non ha più un viso così giovane, qualche prima ruga le segna il contorno degli occhi e anche le labbra iniziano a fare alcune grinze verso gli angoli. Ma è talmente atletica nell’aspetto, sprizzando entusiasmo ed energia da ogni poro, che le avrei dato dieci anni in meno. A quanto pare, invece, siamo coetanee.
- Complimenti, non avrei mai detto.
- Comunque io sono Samantha, per le amiche Sami.
- Piacere, Ariel.
Come un fulmine a ciel sereno mi sorprendo a pronunciare quel nome che da anni avevo archiviato in fondo alla memoria, come se mi fosse schizzato fuori senza controllo, impazzendo dalla voglia di ritornare, per riprendere forma nei miei sogni che scalpitano ancora per tradursi in realtà.
- Allora? Vuoi provare o no?
- ....
- Okay, vieni con me. So io quello che ti serve.
Non riesco a opporre resistenza a quella mano determinata che sembra conoscere ogni cosa e trovare una soluzione a tutto. Come se mi conoscesse da sempre e sapesse leggermi dentro, scansionando la mia reticenza, che altro non è che l’eco bugiarda di quella nube grigia che vuole tenermi legata al passato provandomi a tutti i costi che non valgo niente, che ormai è tardi, che non ho altra alternativa che lasciarmi andare a una vita già decisa, senza prospettive. Superando ogni mia titubanza mi trascina con dolce fermezza fino ai camerini, e lì mi porge un magnifico paio di scarpe col plateau, simili a quelle che poco prima ho visto indossare dalla ragazza russa, e un semplice completo short- maglietta, questa volta in bianco.
Mi cambio convinta che tanto è fantascienza: niente di questa tenuta mi andrà mai bene, neanche a voler campare dieci vite. Lo specchio mi restituirà beffardo uno sguardo di scherno, per dissuadermi per sempre dal volerci riprovare. Sono un’illusa, tutto qua. Ma una volta che trovo il coraggio di sollevare lo sguardo, dopo essermi sciolta i capelli, che come sempre tenevo legati in una crocchia severa, mi sorprendo. La ragazza che mi appare davanti è una simpatica sconosciuta. O forse no. In effetti sembra più una vecchia amica ritornata dal passato per dirmi che ce la posso fare, che niente è perduto. Noto compiaciuta la curva delle mie forme, ancora ben disegnate, le braccia e le gambe toniche riempiono piacevolmente i vestiti indossati, la stoffa si tende quasi fino al limite ma non tanto da esploderci dentro, come temevo. Malgrado tutto e tutti, anche malgrado me stessa, sono rimasta in forma. Sorrido, e per la prima volta dopo tanto tempo riesco a scorgere una parte vera di me, grata alla vita e pronta a guardare avanti senza disperare.
Qualcuno in sala mette della musica. Riconosco le note di un ritmo lounge, il riscaldamento di ogni serata prima che irrompa la follia dei ritmi psichedelici, si surriscaldino i toni ed esplodano la techno, l’house e il revival più sfrenato. Una sensazione familiare mi pervade, e posso persino dire di sentirmi come a casa. Adrenalina, linfa vitale che mi scorre nelle vene, voglia di ballare, di ridere e di vivere, di dimenticare e guardare avanti.
Da questo momento tutto si sussegue veloce, scorrendo come le immagini di un film di azione, senza che neanche io stessa riesca a star dietro alla trama. Mi lascio guidare dagli eventi, come trascinata da una forte corrente cui è impossibile sottrarsi. Samantha sembra determinata a trasformare la mia prima lezione di pole in un vero successo, e così scopro che è proprio la fiducia, che a poco a poco vedo riaffiorare in me, nei confronti della mia insegnante e della vita, il primo strumento da usare in questa strana disciplina. Un filo invisibile ma potentissimo, il vero appiglio che ci tiene legate alla sbarra, sospese nel vuoto, proteggendoci dallo sfracellarci a terra.
Laddove penso di dovermi gettare, arrivando con la forza, scopro che invece devo solo lasciarmi andare, con estrema naturalezza, alla rotazione del palo. Uno spin universale che ci rende tutti uniti, in questa eterna giostra che è la vita. Abbandonarsi al vortice della sbarra, lasciare che siano l’inerzia e la forza centrifuga a disegnare per noi traiettorie possibili, e sulla loro scia essere disposte a seguire quell’impulso di vita, levare in aria le nostre estremità per capovolgerci con tutte le nostre presunte certezze. Upside down, come diceva quella famosa canzone. Ecco che allora, proprio in quel momento, nell’attimo in cui danzi sul filo del tuo destino, capisci che tutto è più facile di come sembra. Che la paura è solo un velo di apparenza che si nutre incessantemente di altre emozioni tarpando loro le ali, e così cresce e ingigantisce, diventando un mostro fatto di aria. Energia bloccata, che basta affrancare per lasciarla scorrere fluida, liberandoci. Questa, la vera cura. “Ti solleverò dalle paure delle ipocondrie, dai fallimenti che per tua natura, normalmente attirerai...”.
Col cuore che rischia di impazzirmi nel petto per un’emozione che da tempo non provavo, mi sento finalmente viva. La mente sgombra di pensieri, giudizi o paranoie. Tutto è concentrazione massima, mente e corpo che lavorano all’unisono in una tensione armonica, consapevolezza millimetrica di ogni movimento, emozione e sfinimento. Samantha mi tende la mano, aiutandomi nei nuovi esercizi che solo un’ora fa avrei creduto impossibili. Sono avvolta da una sensazione piena, come se le pareti della sala si fossero d’un tratto aperte facendomi librare in pieno cielo e io sfrecciassi accarezzata dal vento, sotto di me il ruggito del mare, per compagni gli uccelli migratori. Senza neanche accorgermene sono riuscita a sfidare la gravità, ed ora sto volando.
A lezione finita, guardo negli occhi Samantha. Ci sono momenti in cui bastano poche parole per capirsi. Tutto il resto, sarebbe superfluo e inutile. Certe emozioni condivise parlano da sole. Eppure mi faccio coraggio e riesco a domandarle alcune cose che la mia intuizione non può nascondere per sé. Devo capire, devo conoscere, devo sapere.
- È semplicemente bellissimo, non ho parole. Grazie.
- Non devi ringraziarmi. È la mia missione. Se poi vuoi continuare, non devi fare altro che farti trovare qui ogni settimana. La prima lezione la offro io, o meglio: è un regalo del nostro gruppo.
È chiaro che il suo parlare, volutamente sibillino, mi sta invitando a spingermi più in là con le domande.
- Che bello: siete una crew che si incontra per fare spettacoli nelle serate libere?
- A volte anche quello, ma a parte lavorare per guadagnarci la vita, ed esibirci per divertimento, ci sono casi in cui interveniamo per spirito di fratellanza... in nome del nostro passato.
Il suo sguardo di intesa è talmente penetrante che non mi lascia spazio ad alcun dubbio. Credo di aver capito, ma il significato sotteso è così sorprendente che la mia razionalità vuole ancora resistere.
- Beh, la pole sembra avere risvolti sorprendenti su umore e autostima. Suppongo possa fare miracoli per tutte coloro che cercano qualcosa di diverso dalla solita ginnastica.
- Se vuoi vederla così, senz’altro. Eccetto il fatto che esiste sempre una predestinazione, e dunque per alcune di noi spesso accade che bisogna partire da dove si era finito. Perché ci sia la rinascita, la fine deve diventare il nostro inizio... Molto semplice, se ci pensi.
La guardo stralunata. Un certo modo di parlare, sibillino come la Sfinge, non mi suona del tutto nuovo. Ai tempi del liceo, oltre ai libri di mitologia, mi divertivo a leggere certi manuali esoterici, spinta dalla voglia di trasgredire a un mondo bigotto. Poi quelle letture sono finite, la critica della ragion pratica ha preso il sopravvento sul gioco della Pizia, e la moda delle streghe moderne, che nelle serie televisive aveva spopolato per almeno un decennio, sembrava aver perso definitivamente il suo fascino. Ma l’improvviso richiamo a quel mondo, seguito da una citazione cui non posso restare indifferente, ha saputo risvegliare il mio interesse latente, scatenando una specie di effetto boomerang.
Come in un’implicita partita di tennis, sta a me rispondere a quella battuta densa di significato, ricevere la pallina e rilanciare, se voglio. Oppure battere in ritirata, rinunciando a quell’opportunità. Decido che non ho niente da perdere; il dado è tratto e non ho più paura. Nemmeno di scoprire verità scomode. Tiro la pallina nel vuoto.
- E quale sarebbe la fine?
- Ovviamente il palo e il regno del fuoco.
- Già. E dunque l’inizio?
- Indovina.
- ... La sbarra, e il regno dell’aria, suppongo.
- Proprio così. L’immaginario collettivo ci ha sempre raffigurate sospese in aria in un volo orizzontale. Era il loro modo di sminuirci, per scaramanzia, per questo disegnavano il contrario della verità. Mentre noi volavamo fuori dal tempo, attraversando il passato e il futuro, sulla nostra sbarra verticale. La stessa che per secoli hanno usato per giustiziarci. Oggi, finalmente, è arrivato il riscatto. Possiamo volare libere, al di là dei pregiudizi e delle paure, felici di essere noi stesse, senza legami inutili. Non abbiamo bisogno di uomini, ci bastiamo perché dentro di noi sappiamo ritrovare l’unicità di fuoco e aria, terra e acqua. La nostra missione è restare unite, aiutandoci. Risvegliandoci a vicenda l’una con l’altra.
Ascolto le sue parole come gli archeologi inglesi devono avere guardato i geroglifici sulla stele di Rosetta. Astrazioni impossibili da comprendere alla mente contemporanea che però, in qualche modo, sicuramente nascondono misteriose verità. Troppi secoli di rimozione sono trascorsi perché si possano subito avvertire come vere. La nostra logica le rigetta, come un corpo estraneo. Eppure, in fondo a me, sono di nuovo spinta ad andare oltre l’apparenza. La loro forza evocativa è come una calamita che mi attrae. Il mio occhio interno, che non ho mai spento, le sente vive, palpitanti come le emozioni provate poco fa. L’alchimia dei movimenti rotatori, nell’incontro magico dell’aria unita dal ferro della sbarra alla terra, e attraverso di essi il risveglio del mio fuoco interiore e l’emozione dell’acqua, sono verità che non posso negare.
E se invece fosse tutto vero? Se, per una volta nella vita, lasciassi entrare una verità diversa da quella comunemente riconosciuta dagli “altri”? Chi lo potrebbe impedire? Non sento ostacoli a questa domanda, solo l’assemblea esterna dei perbenisti, e tra loro il mio stesso marito, schierato in prima linea, che vorrebbero farmi tacere. Quanto basta per spingermi a non avere altre esitazioni. Rilancio con triplo salto mortale.
- E se ci incontrassimo ogni sera, anche prima dell’apertura del locale? Saresti libera?
- Io no, ma forse con le altre ragazze potremmo fare a rotazione... Un’ora di lezione privata costa normalmente 40, mentre per noi sorelle, del sodalizio, facciamo 30.
- Fantastico. Ho un garage molto spazioso. Allestire un palo in qualche angolo fingendo che sia una delle mie tante, supposte, “pazzie” non sarà difficile.
... Tanto più che se me ne sto buona senza dargli problemi, le lezioni faranno parte della borsa di studio “ali per la libertà”, direttamente finanziata da mio marito a sua insaputa, aggiungo nel mio pensiero. La cosa mi piace sempre di più.
- E poi, una volta pronta al debutto, se lo vorrai, potrai lavorare con noi o a tua volta insegnare.
- O quello che sarà ...
- Esattamente. Seguendo la corrente e volando sempre oltre. Che poi, è il nostro motto segreto.
La notte è ancora giovane. Una notte d’inizio d’estate, calda, piena. Nel cielo la prima falce di luna si disegna sporgendosi timidamente da un gruppo di nuvole dove prima giocava a nascondersi. Vorrei tenere sopra di me questo tetto di stelle, sdraiarmi a cielo aperto e dormire sull’erba del prato.
Il richiamo all’abbandono è forte e così, uscita dal locale, scelgo un piccolo angolo al riparo da sguardi indiscreti per raccogliere la sfida. Il profumo dell’erba, dove qualche goccia di umidità si è già condensata in quelle prime ore della notte, regala al prato un aroma di menta. Nel ricciolo ribelle posto poco più a nord di Venere riconosco la chioma di Berenice. Un mito che ho sempre amato, ma che da oggi vorrei iniziare a leggere in maniera nuova, trovando un messaggio nascosto. Non sacrificherò più me stessa alla volontà di un uomo, ma cavalcherò intrepida come le amazzoni, alla ricerca della mia vita. Con questa nuova certezza mi rimetterò in macchina, pronta ad affrontare la mia nuova, silenziosa battaglia. Ma non ora.
Adesso voglio ancora godermi le stelle. Cullarmi nella ritrovata consapevolezza che c’è sempre una via di uscita. E soprattutto, come diceva qualcuno, che abbiamo sempre almeno due vite: la seconda comincia quando ci accorgiamo di averne una sola. Da questa notte, lo prometto, desidero che l’amore in me ritrovato sia immenso come questo cielo, e rimanga sempre intatto, senza tempo, come la voglia di volarci dentro.
Lascia un Commento