...La voce è quella di una ragazza, che, negli anni Novanta, frequenta il liceo in Italia, ma scopre che il paese da cui viene la sua famiglia è in lotta, cosa che la disturba così tanto da iniziare a soffrire di anoressia ...
Cassandra a Mogadiscio, edito da Bompiani, di Igiaba Scego è un romanzo multiforme. Prima di tutto è la storia di una famiglia, divisa allo scoppio della guerra che ha coinvolto la Somalia, nella quale la figura centrale, la madre, manca.
Protagonista del libro è soprattutto la madre dell’autrice, che diventa "archivio vivente e tessitrice di storie orali di antica sapienza", per la quale l'idioma gentile è anche "la lingua degli angeli e dei sogni". Ma è anche la storia di consapevolezza di sé: di una ragazza dalla pelle scura, che fa tutto quello che fanno gli altri, e si ritrova donna alla ricerca delle proprie origini.
La voce che racconta questi fatti è visceralmente coinvolta con questa storia. La voce è quella di una ragazza, che, negli anni Novanta, frequenta il liceo in Italia, ma scopre che il paese da cui viene la sua famiglia è in lotta, cosa che la disturba così tanto da iniziare a soffrire di anoressia. Vomita per buttare fuori ciò che il corpo ritiene tossico. È come se il corpo non le permettesse di accettare ciò che avviene al suo popolo.
Diviso in 14 capitoli-glossario, ha un "intermezzo decoloniale" e una chiusa "in movimento", ben oltre la saga di una stirpe della diaspora. Dove viene fuori una cultura ibridata di lingue e mondi diversi, ferita da "una dittatura, da una guerra infinita e da migrazioni multiple" e dall'"illow", l'oblio. Importante, si capisce da subito, è il ruolo della memoria. Quelli, che l'io ricorda o intervista, sono custodi dell'"husuus", la memoria. E hanno il compito di custodirla, ma anche di tramandarla. La memoria si fa, allora, carne. E, con essa, giunge la speranza.
La scrittrice racconta una geografia sentimentale, attraverso una genealogia femminile. Attraverso le parole viene fuori una lunga linea mobile di un "maternage", senza ruoli ben precisi. Quello che la Scego fa è raccontare una storia usando la forza delle parole orali, della memoria che si sfibra e si scolora e che, diversamente dal contesto della storiografia, ha come risultato qualcosa di fallace. Perché 'prodotto delle intemperanze della memoria', quindi non necessariamente precisa, come fosse il racconto di uno storico. Si percepisce il legame con la terra d'origine e la cultura, in cui si viene accolti, racconta una storia di apertura verso il nuovo e di nostalgia della patria.
La sensazione che domina il racconto è lo spaesamento, dovuto a continui sconfinamenti, attraversamenti, lutti e gioie segrete grazie al potere dei "buugga", dei libri, e all'energia della "qoys", famiglia che sa porsi domande ("su'aalo"), guardando la tragedia ("kasaro") dei conflitti ("dagaal") e della storia, personale e collettiva, con occhi ("indho") nuovi.
Con una consapevolezza nuova e diversa la voce narrante vede la propria storia familiare e se ne sente parte. I personaggi presentati sono in bilico tra due mondi. È l'urgenza e le sfide di una scrittura tenace nella ricerca di senso a caratterizzare la voce di Igiaba Scego. Forse perché tutti i "dismatriati", esuli dai traumi di sradicamenti, condividono la nostalgia di comunità e di pace. O magari perché "in Somalia il prossimo è sempre una abayo, sorella, o una bowe, fratello", scrive ad un certo punto la Scego. Questo rende Cassandra a Mogadiscio un racconto che passa per le generazioni e arriva a quei somali ormai entrati nella società e nella cultura del paese che li ha accolti (Italia, Canada, Stati Uniti...). Oltre ad essere un libro di memorie, il romanzo racconta due aspetti dell'Italia poco noti: il Fascismo che a tutti i costi vuole le terre della Somalia, ma anche le crudeltà dei soldati italiani. Oltre le aspettative di coloro che, somali, sono giunti in Italia, con l’idea di avere una nuova vita e di essere accolti dagli Italiani, perché facenti parte di un unico Impero.
Così Cassandra a Mogadiscio diventa una storia di antropologia: la scrittrice, nata in Italia, ricostruisce la sua storia e quella di un popolo, quello somalo, che affronta una dittatura e una guerra civile sanguinosa e si disperde nel mondo.
La Scego ‒ scrittrice "afro-euro-politana" dall'identità mescidata, pedagogista, ricercatrice militante e giornalista freelance ‒ si definisce una 'donna made in Italy', ma anche una "turjumaan", traduttrice abitata da più lingue: da quella materna ‒ il somalo di sua madre Khadija (hooyo), la nobile pastora nomade vittima di un "doppio esilio", dalla terra natìa e dall'alfabeto ‒ a quella lingua paterna e franca dell'Africa Orientale, il "chimini". Oltre all’inglese, l’inglese, il francese, lo spagnolo e il portoghese.
La Scego, parlando del chimini, racconta l'eco del rimpianto del padre ("aabo") Ali Omar, "gentiluomo e caballero" di Brava, già sindaco di Mogadiscio, governatore, ministro, ambasciatore, capo del Comitato olimpico somalo, prima che la dittatura di Siad "Bocca Grande" Barre lo costringesse all'espatrio perenne e a una vita precaria, ma sempre dignitosa. Poi, c’è l'inglese mai imparato fino in fondo, nonostante l'amore dell’autrice per Jane Austen. Lo spagnolo e il portoghese sono la lingua delle canzoni, libri e autori amati. Il francese, invece, è la lingua della diaspora e la lingua con cui i somali si riconoscono nel mondo.
Infine c’è l'italiano, che è per la scrittrice, madrelingua, essendo nata e cresciuta a Roma. L’italiano è "la lingua degli affetti", dei segreti, di cantautori amati come Pino Daniele, del cinema e della grande letteratura, la "lingua un tempo singolare e ora plurale" perché "mediterranea e fatta di incroci", da Dante a Elsa Morante fino a Pap Khouma, Amir Issa, Djarah Kan. Ma anche la lingua "dellecolonie, della frusta e delle catene".
La lingua italiana è anche lingua "dominante che uccideva ogni sentimento", perché fatta "di catrame e sangue", di fiele, vergogna e umiliazioni che suo nonno paterno, Omar, ha dovuto tradurre ai somali sottomessi per il generale fascista Graziani, a capo dei colonizzatori italiani, "ubriachi di aspettative". Una storia che fa riflettere sulle colpe degl iitaliani durante il Colonialismo e dell'impresa tutta fascista di conquistare una zona dell'Africa che avrebbe vissuto meglio, senza l'interferenza degli europei (anche degli italiani).
La scrittura della Scego è brillante, nitida e vibrante di emozioni. Le sonorità "altre" diventano così potenti da diventare segno antropologico e letteraria, indagine memoriale. Così si cerca di dare una voce e corpo e visibilità inedita a un passato recente ancora vivo, benché rimosso, in un'attualità post-coloniale dove il mostro della violenza razzista e misogina ancora mette radici.
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