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Carla Fracci. In punta di pennello

Carla Fracci. In punta di pennello

La vita di Carla Fracci appare comprensibile all’artista che una volta terminato il quadro, per un istante, è capace di intuirla Intervista al maestro Gianluca Venezia

Domenica, 30/05/2021 - Una stanchezza vigile, capace di ascoltare anche a distanza, senza perdere una parola, nonostante il caldo e la calca di persone assiepate intorno, un pomeriggio di quattro anni fa. Abito bianco e corallo antico tra stucchi e vetrate, cassettoni e pavimenti pregiati di palazzo S.Carlo, Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, una raffinata villa settecentesca che porta il nome dell’omonimo teatro napoletano.
Carla Fracci è l’ospite d’onore. Gianluca Venezia l’artista che l’ha ritratta. “Ero stato chiamato per la presentazione di una sua biografia: “Passo dopo passo”, che si teneva in un magnifico salone dedicato a lei. Per l’occasione mi avevano commissionato il ritratto. Ricordo l’espressione e la naturalezza che ebbe nel dire di sentirsi come davanti a uno specchio tanto forte era la somiglianza. Ricordo la sua stanchezza mascherata dall’incedere leggero. Lo sguardo attento rimandava sensazioni di forza. E quell’interiorità percepita attraverso le braccia e le mani, la grazia con cui accompagnava i gesti alle parole. Misurata e sicura di sé. Una regina”.

Cosa ti ha colpito?
Il momento in cui è arrivata. Spandeva energia e si avvertiva la presenza fisica, nonostante fosse esile e scarna dava l’idea di una estrema solidità. E ne era consapevole. Quel pomeriggio c’erano le mamme che portavano le figlie in processione da lei. Una di loro chiese: “quale consiglio può dare a mia figlia” e lei: “ma che domande sono. Deve esercitarsi. Deve lavorare. E tanto”. Era così Carla Fracci, diretta, concreta, ironica, unica, era la perla della sua ostrica...

E durante la serata?
Cercavo di non perdere neanche un dettaglio. Ero felice di starle vicino. L’ho anche rassicurata quando guardandosi ha detto: “certo con il tempo si cambia, io mi sono rotta il naso purtroppo e adesso non ho più un bel profilo”. Si era espressa in maniera pensosa, senza alcuna eco di vanità.

Come è andata la realizzazione del quadro, avevi dei vincoli?
No, estrema libertà, solo la cornice doveva essere ovale. Ho impiegato giorni a cercare la posa giusta fino a trovare uno scatto fatto al Vittoriale pochi mesi prima, nella casa di D’Annunzio, a Gardone del Garda, era l’immagine che cercavo, intensa e quasi ispirata. A quel punto il più era fatto e sono andato veloce, olio su tela, con una mano quasi febbrile.

Tu hai viaggiato molto, sei anche scenografo, passi dal restauro antico al figurativo, dagli affreschi (suoi sono molti soffitti decorati in dimore patrizie del centro di Roma, ndr) al ritratto iperrealista, con tutte queste esperienze che tipo di linguaggio senti più tuo?
Mi piace il confronto con la materia, le stoffe, i colori, la luce di un terrazzo, il sedimento della polvere su una pala del ‘400. Mi piace assaporare la realtà. Ecco perché i ritratti. Attraverso una faccia c’è l’interpretazione della vita di quella persona. Bisogna avere un rispetto assoluto, nel viso non vedo solo segni o mappe di nei ma anche il resto, tutto. I suoi geni, i suoi nonni, la mamma, il padre. Capisco che il quadro è finito quando sulla tela appare tutto questo e in quell’istante mi commuovo.
Emanuela Irace

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