«Cara Giulia». Emozioni dal libro di Gino Cecchettin
..."Non ho verità in tasca, ma ho tante domande a cui vorrei trovare la risposta migliore. E credo che ogni processo cominci col porsi le domande giuste..."
Domenica, 10/03/2024 - È la lettera di un padre a sua figlia il libro di Gino Cecchettin (ed Rizzoli), un padre che ha perso sua figlia a causa del patriarcato. Non sono io a dirlo. L’ha detto la sua altra figlia, Elena Cecchettin, quando ha saputo che sua sorella è stata uccisa dal ragazzo che diceva di amarla e che non accettava di essere lasciato. «È stato il vostro bravo ragazzo», ha anche detto, me lo ricordo bene. Perché è sempre il vostro bravo ragazzo quello che vi affrettate a riqualificare come mostro per giustificare voi, il vostro non aver previsto, e per allontanarvi da lui, dalla sua violenza, per convincervi che a voi certe cose non potranno mai accadere, che non vi riguardano.
E anche Gino Cecchettin pensava che il femminicidio non lo riguardasse. «Quando leggevo storie di femminicidi ne rimanevo colpito, scosso, ma poi egoisticamente giravo pagina. Non avrebbero mai riguardato me perché io nella vita avevo “fatto le cose per bene”». Ci sentiamo immuni, fino a quando quella violenza che credevamo così lontana da noi ci colpisce in pieno. «Nessuno di noi è immune».
Ed è così che, impreparato, questo padre si ritrova a preoccuparsi perché sua figlia aveva smesso di rispondere ai messaggi, perché il suo telefono non era raggiungibile, perché non era tornata a casa la notte, perché era uscita con lui. Quel lui che aveva lasciato. La vita cambia in un istante. O, come diceva John Lennon, la vita è ciò che ci accade mentre siamo impegnati a fare progetti per il futuro. Ed è così che questo padre si ritrova dall’organizzare la festa di laurea a dover organizzare il funerale di sua figlia. È così che il pigiama lasciato nel letto e la camicetta nel cesto del bucato diventano molto più di un pezzo di stoffa. È così che il tavolo con quattro lati, prima tanto stretto che le ginocchia si scontravano, ora diventa troppo grande. È così che un padre si ritrova a chiedersi chi sia più giusto salutare per ultima al cimitero, se sua moglie o sua figlia.
Una figlia che col suo sorriso giovane e sincero inevitabilmente ha commosso e ha indignato tanta Italia. Ma la commozione e l’indignazione non bastano, e soprattutto sono destinate a durare poco. È necessario che da quel dolore e da quell’indignazione coltiviamo la ribellione, il desiderio di cambiare. Elena ha detto anche questo: «Per Giulia non fate un minuto di silenzio. Per Giulia bruciate tutto!»
«Secondo i dati del rapporto delle Nazioni Unite i femminicidi nel mondo nel 2022 sono stati 89.000. Questo significa 7416 al mese, 243 al giorno, quindi dieci all’ora, cioè quasi uno ogni cinque minuti». Questi numeri dovrebbero causare una ribellione, soprattutto in chi ha messo al mondo figlie e figli. È davvero questo il mondo in cui volete che vivano? Un mondo in cui il più grande pericolo per le donne è proprio l’essere donne?
Di certo questo non è il mondo in cui Gino Cecchettin vuole che vivano sua figlia e suo figlio, vuole un mondo diverso da quello in cui è cresciuto lui stesso, e che solo ora riesce a interpretare con la consapevolezza di quella parola: patriarcato. Ricorda, Gino, che suo padre impediva a sua madre di lavorare perché non voleva che frequentasse altre persone, altri uomini. Ricorda che il suo obiettivo era «crescere un uomo forte», non conosceva alternative, il suo orizzonte non ne consentiva: «erano queste le regole ed era in questo modo che vivevano le famiglie». Un modo considerato giusto, indiscutibilmente giusto, da tutti. «Era semplicemente un modello sbagliato, ma nessuno lo vedeva come tale».
Il femminicidio di Giulia lo obbliga a mettere in discussione quel modello così indiscutibile.
E capisce che non è necessario solo intervenire sulla violenza manifesta, quella che lascia i lividi, quella che obbliga al pronto soccorso, è indispensabile agire sulle «mille quasi invisibili e costanti vessazioni, soprusi che attraversano la vita quotidiana di ogni donna», è indispensabile cambiare il nostro linguaggio quotidiano, perché è con le parole che costruiamo il mondo. È necessario capire che il male è nella nostra cultura, non nella malattia di qualcuno diverso da noi. «Una cultura che fa della disparità tra i generi uno dei suoi fondamenti. Forse il più profondo». È necessario amare, dice Gino, e dire spesso a chi si ama che la si ama. Ed è necessario capire che l’amore non ha nulla a che fare col possesso. Amare significa desiderare la libertà dell’altra persona, la sua felicità, anche se quella felicità è lontana da noi. «La parità non è a scapito di qualcuno, è un fatto di civiltà, e non si tratta di sottrarre niente a nessuno, quanto di parificare la bilancia».
Il cambiamento parte da noi, quindi, da ciascuna e ciascuno di noi. Parte dalle parole e dai gesti di ogni giorno, soprattutto da quelli che diamo per scontati.
Come Gino Cecchettin anch’io mi chiedo spesso se è davvero possibile cambiare il mondo, e devo ammettere che perdo la speranza con una certa frequenza. Eppure perché non dovrebbe essere possibile? «Perché, visto che siamo noi il mondo?»
Nelle ultime pagine del suo libro Gino pensa al futuro di sua figlia Giulia, a quel futuro che lei non ha più. Pensa alla meritata laurea che avrebbe - e che comunque ha - ricevuto, pensa a quella nuova passione per l’illustrazione che forse l’avrebbe portata verso un nuovo lavoro e magari una nuova città, pensa a che madre sarebbe stata se avrebbe desiderato esserlo, pensa anche alla vecchiaia che Giulia non avrà mai. Lei rimarrà sempre una giovane ragazza. Una ragazza che voleva «essere felice, nient’altro. In un mondo felice».
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