Venerdi, 03/05/2024 - “Dopo due maschietti abbiamo voluto il terzo figlio ed è stata tanta la gioia di avere una bambina. Appena nata ci hanno comunicato che Domiziana aveva la sindrome di Down. La notizia mi ha letteralmente sconquassato l’esistenza”. Barbara Tamanti racconta la sua storia a partire dai primi passaggi. “Ero impreparata, avevo paura di quello che mi aspettava, che mi era ignoto, ero invasa dal senso di inadeguatezza per quello che avrei dovuto fare. Soprattutto sentivo grandi sensi di colpa nei confronti dei fratelli, ai quali non avevo regalato qualcosa di bello ma li avevo caricati di un problema che si sarebbe esteso per tutta la loro vita”. Il dopo di noi è il problema che si presenta da subito e invade ogni minuto dell’esistenza. “Quando tuo figlio ha una disabilità e, come nel caso di Domiziana, è una disabilità cognitiva, il pensiero va subito al futuro e ti domandi ‘che sarà di lei dopo di me’”. È una vita tutta in salita, che accanto alle tante preoccupazioni della vita quotidiana pone continuamente una domanda “quello che sto facendo è giusto?”. È pesante vivere nella costante sensazione di “sentirmi sempre sotto esame con me stessa”.
Barbara definisce la sua esistenza “piena d’amore, sicuramente, ma difficile”. Difficoltà alla luce delle quali fa questa considerazione “il mondo della disabilità mi ha dato tanto: la tolleranza, la pazienza, la disponibilità; mi ha tolto sicuramente la spensieratezza. E il dubbio costante di lasciare al mondo una persona che forse poteva ottenere di più rispetto a quello che io sono riuscita a darle come strumenti”.
Occorrono alcuni anni per assorbire il colpo e Barbara osserva che la scuola è stata importantissima per trovare un possibile equilibrio. “Dopo lo sbandamento iniziale, durissimo, ho cercato di riprendere in mano quello che era la mia vita e anche la mia famiglia, che avevo in qualche modo accantonato per dedicarmi a Domiziana. Gli anni della scuola sono stati importantissimi per lei ma anche per me: ho preso atto del fatto che lei era un individuo a sé stante, che non era il mio prolungamento, che poteva avere una sua esistenza. Soprattutto ho capito che gli altri due figli avevano bisogno di me. Per dedicarmi completamente, e in maniera maniacale a Domiziana, avevo accantonato la famiglia e anche me come donna. Ad un certo punto è scattato il mio istinto di sopravvivenza e mentre lei camminava nella sua evoluzione scolastica ho cercato di riprendere in mano la mia vita, a partire dal lavoro. Ma a un certo punto ho dovuto fare una scelta perché non reggevo più la fatica della gestione di una famiglia e di tre figli. Se non hai una rete di appoggio non ce la fai. Questo vale per tutte le famiglie, ma un conto è gestire una fase in cui i bambini sono piccoli e che poi termina, altra cosa è con la disabilità. È come avere dei bambini che in qualche modo rimangono sempre piccoli. L’aiuto ti serve per tutta la vita. Inoltre noi mamme di figli con disabilità siamo poco tollerate nei posti di lavoro, sei considerato un dipendente inaffidabile perché hai necessità di assentarti spesso, la legge 104 con i famosi tre giorni al mese è un problema per il datore di lavoro e spesso anche per i colleghi. Quindi dedicarsi alla famiglia, come ho fatto io e come fanno molte altre, è sicuramente una scelta d’amore però è forzata. Penso che se le donne potessero contare sul sostegno da parte dei servizi e delle istituzioni, probabilmente molte sceglierebbero di andare a lavorare. Barbara Tamanti parla dei tanti stereotipi che ingabbiano le donne, le madri di figli con disabilità e persino le stesse disabilità, che per esempio dipingono le persone Down come “carine” quando invece sono “persone con il loro carattere e le loro durezze” oppure che esaltano i traguardi dei pochi che magari arrivano a laurearsi. Ma la realtà è ben diversa. “Nel corso degli anni, parlando con tante mamme più grandi di me mi sono resa conto che prima vivevano in modo privato i problemi della disabilità dei loro figli; la mia generazione forse è stata la prima a ribellarsi chiedendo servizi pubblici e non chiudendosi in casa. In passato queste madri si mostravano in lutto, non potevano pensare alla cura di se stesse. Invece avere cura di sé è la salvezza perché, affermando che esisti come persona e come donna, aiuti la tua famiglia e tua figlia. Io voglio, come donna, intrattenere rapporti sociali, voglio occuparmi anche di altro oltre che della disabilità. A me è capitato di essere criticata se mi interessavo ai problemi del comune in cui vivo. Come donna posso e voglio essere tutto: madre di una figlia con disabilità e anche una persona che fa politica. La società deve capire che noi vogliamo ‘normalità’ perché nella normalità potremmo vivere come tutte le madri e come tutte le donne”,
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