A proposito di aborto spontaneo, il libro di Erica Isotta
"25% Una donna su quattro" tratta di un tema che riguarda una percentuale non irrilevante di donne, bisognose di essere sostenute in un delicato frangente della loro vita
Martedi, 19/01/2021 - 25% Una donna su quattro, scritto da Erica Isotta, tratta del tema dell’aborto spontaneo e di come sia vissuto da una donna, che cerchi di partire dal suo dramma personale per dare una chiave di lettura la più oggettiva possibile su di un tema che vede come protagoniste, per l’appunto, una donna su quattro. Una percentuale numerica dà conto di quante siano colpite da questo evento, ma non rende le idonee risposte alla domanda di supporto di chi si trovi ad affrontare il problema di un’interruzione involontaria di gravidanza e delle sue conseguenze fisiche ed emotive.
Forte è il senso di sentirsi inadeguata alla maternità perché non perfetta, con la correlata e gravosa percezione di colpa, stringente è l’interrogarsi sul genere di lutto da elaborare, pregnante è l’arida ricerca di un sostegno “per superare la tragedia in questione”, obbligato è l’arrendersi all’assenza di un’assistenza, sia a carattere individuale che pubblico, degna di fare uscire la donna dall’isolamento in cui si trova a vivere. L’autrice considera il suo elaborato quale un aiuto per “coloro che hanno vissuto la stessa esperienza, facendole sentire tutelate e “viste” in un mondo in cui questa nostra esperienza è messa a tacere e diventa invisibile”.
Dopo una digressione su alcuni tabù attinenti al ruolo della donna nell’odierna società, ossia la sua salute, l’infertilità, le mestruazioni, Erica Isotta inserisce nell’elenco anche l’aborto spontaneo, su cui “qualsiasi silenzio rimanente dovrebbe essere rotto, senza dubbio, ma restando consapevoli che non c'è un solo modo per parlare di una perdita del genere”. Rompere il silenzio diventa, conseguentemente, la premessa fondamentale per riuscire a supportare una donna che tenti di sopravvivere ad un aborto del genere, soprattutto se sente di vivere “in una società che non riconosce il suo dolore”.
Non trovando tra parenti, amici, conoscenti, medici il necessario sostegno, perché soliti a considerare l’interruzione involontaria di gravidanza solo un processo biologico, ci si può ritrovare a rimanere in silenzio, come se “non sia permesso di soffrire neanche quando avevo avuto il coraggio di ammetterlo ad alta voce”. Eppure le donne vittime di un aborto spontaneo, se non riescono a fuoriuscire dal corto circuito generato da sentimenti di auto-colpa, in quanto coscienti di avere un corpo “difettoso”, potrebbero soffrire di ansia e depressione.
L’autrice, al proposito, cita uno studio dell’Imperial College di Londra, in base al quale “il quarantacinque per cento delle donne ha riferito sintomi di disturbo da stress post-traumatico tre mesi dopo l'aborto spontaneo. Circa il trenta per cento di queste donne ha riferito che i sintomi hanno influenzato la loro vita professionale; circa il quaranta per cento, i loro rapporti con la famiglia e gli amici”.
Per questo motivo il libro si conclude con l’auspicio che le donne con un’esperienza similare abbiano “la possibilità di confrontarsi con un professionista per discutere della loro situazione. Così come sarebbe importante poter avere un interlocutore, un'amica, una sorella, qualcuno che però deve essere in grado di capire, senza sminuire, la situazione che si sta affrontando”. Non soltanto per elaborare il proprio lutto, ma per non sentirsi “pecore nere, rarità mal funzionanti, specialmente in giovane età”.
Al femminismo, a cui in prima ed ultima analisi, da femminista pro-choice, Erica Isotta si rivolge, per criticare la sua assenza di approccio costruttivo nei riguardi delle donne che hanno subito un aborto spontaneo, chiede un cambio di rotta. A suo dire, le femministe, prese come sono dal teorema di trovarsi di fronte ad un embrione o un feto, ossia “un non bambino” - il cui aborto, quindi, non è suscettibile di essere vissuto come un lutto - dovrebbero, invece, cercare una chiave interpretativa diversa, sulla base dell’assunto che “il nostro vissuto è valido tanto quanto quello altrui”. Il motivo l’autrice lo sottolinea in maniera più che netta, perché “troppe donne, mamme che hanno perso, sopportano questa lotta silenziosa”.
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