Venerdi, 25/08/2017 - Dopo aver finito di leggere il libro “A mano libera. Donne tra prigioni e libertà” le domande che mi sono posto sono state le seguenti: “Quale idea di libertà prevale in questo testo?negli apporti che in esso sono contenuti, l’espressione ‘essere liberi’ ha lo stesso significato che diamo tutti, in base al senso comune? e cioè che ‘libero è colui che fa quel che vuole finché non lede la libertà degli altri’?”.
Da nessuna parte ho trovato questa definizione. L’esperienza della libertà che ci consegna questo libro è sicuramente un’esperienza di autonomia e autodeterminazione. Ma un’autonomia e un’autodeterminazione fortemente vissute in una dimensione spirituale, intima, culturale che prescinde dai rilevanti condizionamenti esterni che la vita carceraria produce. E che, in generale, la condizione umana produce.
Le persone che hanno partecipato al laboratorio e poi alla stesura del libro sono perfettamente consapevoli che viviamo in una società solo apparentemente libera. In essa sopravvivono privilegi, parassitismi, corporazioni chiuse. È una società totalmente amministrata mediante una miriade di norme giuridiche che non corrispondono alla realtà e che possono, dunque, essere aggirate; una società che copre i soprusi, non riconosce il merito e non premia la capacità di autorealizzarsi. E chi non è indotto e incoraggiato ad autopromuoversi non è affatto una persona libera.
Questa convinzione si avverte in quasi tutte le pagine. Il sottofondo dell’intero libro è che chi sta “fuori” è comunque privo di libertà, come chi sta “dentro”. E che “dentro” incominciano ad esserci percorsi e strumenti che permettono finalmente alle persone di conquistare la propria libertà. Da qui la speranza, un sentimento, ancor prima di essere una virtù, rasserenante.
Mi ha felicemente colpito come nel “progetto” e poi nel libro si realizzi uno scambio intergenerazionale: ci sono le più giovani (quelle di “dentro” e quelle di “fuori”) e ci sono le anziane (quelle di “dentro” e quelle di “fuori”) che di fatto interloquiscono tra loro. I racconti sono infarciti di riferimenti a madri, padri, figlie, figli. Anche tra chi deve scontare 30 anni ci sono giovani e anziane che conservano il senso della propria età. In fondo c’è la piena convinzione che gli adulti abbiano da imparare dai giovani, ma che anche questi abbiano bisogno di adulti responsabili, non disposti ad abdicare. E che la libertà può sussistere, se si mantiene lo scambio intergenerazionale. Perché tutte le condizioni di vita (le età) devono esprimersi in pienezza, in un contesto di rispetto, empatia, ascolto e accompagnamento reciproco.
In questo libro la libertà è innanzitutto “avere qualcosa da fare” (Laura, pag. 51), “tenere occupata la mente” (Loredana, pag. 68)perché permette l’impegno, la virtù, la crescita, l’assunzione di responsabilità, il mettersi in gioco con se stessi e con gli altri. Non un’occupazione qualsiasi, ma un lavoro di cittadinanza che alimenta l’autostima. Un percorso faticoso che crea sofferenza. Ma poi, i risultati che si conseguono determinano soddisfazione e orgoglio. Consapevolezza piena della propria condizione e capacità di guardarsi dentro e cambiare.
In questo libro la libertà è “non aver più paura di sé” (Maurizia, pag. 53) perché quando s’impara a dominare le proprie emozioni, la propria volontà, la propria razionalità anche i sogni e i sentimenti diventano propri. E si conserva, in tal modo, la capacità di stupirsi della vita, di aprirsi agli altri, di amare gli altri (Lucia, pag. 54). Un processo non indolore anche questo perché si deve avere la forza di evadere dalle “negatività” e di “nascondere le proprie cicatrici più profonde dietro ad un sorriso” (Loredana, pag. 68).Perché si deve avere l’ardire di aprire le “porte chiuse” e di abbattere “i muri” che la stessa natura umana crea come apparente protezione ma che in realtà ci opprimono. “Muri fisici e muri inventati” (Maria Lucia, pag. 71). È l’amore a darci la forza di affrontare la sofferenza. È l’amore a inverare il sogno e a farci andare oltre il confine. “Ritrovare sé” è ritrovare “il senso profondo della vita”, “dare importanza alle piccole cose”, prepararsi a vivere “senza aver bisogno di nulla” (Patrizia, pag. 56), aver cura di sé nella malattia (Silvia, pag. 57), imparare, proprio nelle “cose minute ed intime” che si condividono con le persone fragili, un modo diverso di amare, più intenso, più pieno (Costanza, pag. 58).
In questo libro la libertà è la capacità di rimanere se stessi, “genuini”, “veri”, senza coltivare il “desiderio di apparire ciò che non si è” (Rosanna, pag. 60). Rimanendo se stessi,si può apprendere e crescere perché “la libertà è una forma di pensiero” (Federica, pag. 64). E si possono stabilire relazioni e ponti tra mondi diversi per costruire le premesse di relazioni future (Maria Teresa, pag. 66). La libertà è “la capacità di essere presenti a se stessi con verità, tenere in mano la tua vita, diventare talmente protagonista da accettare anche le cose brutte e difficili perché sei solo tu che puoi trasformarle in qualcosa di utile per te stesso” (Alessandra, pag. 72).
In questo libro la libertà ha “il colore dell’arcobaleno” che si può osservare coltivando un orto. Anche un piccolo spazio verde senza sbarre permette di “guardare il cielo e le nuvole che giocano con il vento, camminare sul prato, sedersi sotto un albero e ascoltare gli uccellini che cinguettano felici” (Marilena, pag. 70). L’agricoltura carceraria è sicuramente un percorso di libertà. Un libertà che mette in relazione con il vivente, consente di seguire i cicli biologici e ricostruisce la funzione di cura e di supporto alla crescita. Una libertà che porta al senso di responsabilità e riabitua alla “vita comune”.
Furono gruppi di donne a inventare l’agricoltura quando i gruppi umani si spostavano da un punto all’altro del globo alla ricerca di piante spontanee o di animali da predare per ricavarne del cibo. Stanche di quella vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, le donne incominciarono ad osservare come avveniva la crescita e la fioritura di una pianta. Carpendo i segreti della natura, intuirono un fatto straordinario: dal momento della semina di una cultivar di frumento, selezionata tra tante in natura, e il tempo del raccolto, sarebbe trascorso un anno. E rimuginarono che quello era il tempo sufficiente per portare avanti una gravidanza. Gioirono al pensiero di quella intuizione. Finalmente potevano dare un senso e una giustificazione al loro bisogno di fermarsi e di mettere radici in un determinato territorio. I maschi continueranno ancora per alcuni millenni ad andare a caccia di animali e a raccogliere frutti spontanei. Per loro il mondo non aveva un luogo ma ovunque ci fosse cibo era una meta da raggiungere e poi abbandonare. Le prime comunità stanziali saranno, dunque, formate prevalentemente da donne, bambini e anziani. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Nasce come forma di vita collettiva, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorge come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio. Il significato più profondo di coltivare è “servire” la natura e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo. Ecco perché l’agricoltura è destinata ad avere una grande funzione nelle attività rieducative e di reinserimento sociale e lavorativo.
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