Anna Maria Cervoni. Non mi sono mai interessata all’universo carcerario e come si svolga la vita “dentro” è una realtà sconosciuta a chi da un punto di vista lavorativo non si occupa dei luoghi di detenzione o non ha relazioni affettive o amicali con il mondo carcerario; le conoscenze in merito sono filtrate dai media o dalla finzione filmica per cui è difficile avere un’idea reale del carcere e di quello che possano provare le persone che a vario titolo stanno lì per scontare una pena.
Entrare fisicamente in quel mondo, superare la porta carraia, sottoporsi ai vari controlli, lasciare alcuni effetti personali, è stata una sensazione strana che ha preso sempre più corpo quando nel teatro ho incontrato le detenute vere; schierate a semicerchio hanno cominciato a leggere a turno le riflessioni sulla propria esperienza di vita. All’inizio ho avuto la sensazione di vivere la scena di una fiction televisiva e di essere una delle tante comparse insieme alle altre detenute che erano lì presenti per ascoltare; ma ad ogni parola, frase e battuta, una molteplicità di pensieri e riflessioni cominciavano ad addensarsi e sovrapporsi. Non ho avuto la sensazione di avere davanti a me persone che avevano infranto la legge, che stavano li per un giusto motivo e che stavano espiando una pena. Eppure mi è capitato di essere stata derubata e quanto avrei voluto vedere la/ il responsabile in carcere e riappropriarmi delle mie cose. Ma spesso come dice Anna Maria in una lettera 'è la miseria che non è reato a indurti ad infrangere la legge per vivere e la libertà senza dignità di un lavoro è una eterna prigione'”. E la fame è la 'prigione più pesante' fa notare Hidaya.
Ognuna, nel ripercorrere la propria storia, ha scoperto potenzialità latenti in una vita occupata da attività quotidiane legate al dovere / piacere di obbedire/soddisfare il proprio compagno: la libertà della mente, la capacità di pensare. Suona strano sentire dire dalle detenute che il carcere è una esperienza di libertà che ha dato loro l’opportunità di riappropriarsi della propria identità, di rivisitare emozioni e sentimenti che le hanno portate ad infrangere la legge spesso per amore.
I diversi percorsi di vita narrati nelle lettere del libro confermano un unico comune denominatore : la riflessione che la condizione di libertà è indipendente dalla condizione di detenzione e ognuno di noi può vivere la propria condizione di non libertà anche all’aria aperta: la solitudine, la tristezza, l’indifferenza, l’abbandono, la droga, la povertà, la malattia sono forme di prigione al di fuori della prigione.
Sicuramente molte di queste donne in contesti sociali e culturali diversi da quelli in cui sono nate e vissute avrebbero seguito altri percorsi di vita.
Questa esperienza di volontariato rivela una modalità diversa di relazionarsi con chi è “dentro” e un contributo significativo da parte di chi da fuori vuole offrire un apporto concreto al cambiamento di chi è detenuto. Cambiare non è semplice, richiede tempo, spesso fa paura perché non ci offre subito certezze, soprattutto se ci rapportiamo con chi ha infranto la legge e forse non ha alcuna voglia di cambiare; ma penso che ognuno di noi dovrebbe avere sempre a mente la frase del Dalai Lama riportata anche nel libro 'Siamo tutti potenziali malfattori, e nel profondo dell’animo quelli che mettiamo in prigione non sono più cattivi di chiunque di noi. Hanno ceduto all’ignoranza, al desiderio, alla collera, malattie da cui anche noi siamo affetti, per quanto in misura diversa. Il nostro dovere è di aiutarli a guarire'.
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