‘L’Eco dei Fiori Sommersi’: dare voce e memoria alle donne senza voce, ieri come oggi
Intervista a Rosa Maietta, autrice e regista di un film su violenza, carcere e femminicidi realizzato attraverso i documenti dei processi penali dell’Archivio di Stato di Napoli, tra '700 e ‘900
Martedi, 25/02/2025 - Dopo l’anteprima al Filmmaker Fest di Milano nello scorso autunno, il bel ‘documentario creativo’ della montatrice e regista Rosa Maietta, dal titolo metaforico ‘L’Eco dei Fiori Sommersi’, anche vincitore di un premio per la post-produzione al 42° Bellaria Film Festival, è in corso di presentazione in altre sale e manifestazioni: dopo il cinema Greenwich di Roma, il prossimo appuntamento sarà a Napoli il 14 marzo nella Rassegna “Astradoc-Il cinema del reale”.
Si tratta di un’opera che attraversa vari linguaggi per raccontare alcune sfaccettature della condizione femminile a partire da processi penali dal '700 ai primi del ‘900, su cui l’autrice ha lavorato presso l’Archivio di Stato di Napoli: vengono evidenziate, fra le tantissime incontrate, numerose storie, non solo di violenza o femminicidio, ma che “lasciano emergere - racconta la Maietta - sfumature diverse di una condizione che non sembra purtroppo cambiare e che ci accomuna tutte, a prescindere dal tempo e dallo spazio”.
Da un lato l’opera racconta l’Archivio, come fosse un mare in cui perdersi, e dove ascoltare in lontananza l’eco di tante storie di donne di tempi lontani – le cui voci, drammatiche e poetiche, sono rimaste appunto sommerse - e riportarle alla luce, offrendo loro il senso di una sorellanza lontana e vicina.
Tra le narrazioni più intense, raccontate tramite immagini eloquenti, silenzi e letture dei documenti dei processi, la storia di Linda una donna che, mentre il marito è al fronte, s’innamora di un altro e resta incinta, e deve trovare un modo per abortire il bambino, figlio della colpa, con conseguenze tragiche; oppure la vicenda di Silvia, che si rifugia a vita in un convento per sfuggire alle violenze continue del marito, e ancora Maria, che subisce una violenza sessuale da bambina senza che nessuno paghi per questo reato, ed Emma, una partigiana antifascista finita in carcere.
Innumerevoli storie di donne malmaritate, violentate, maltrattate, carcerate, stuprate, uccise, comunque vittime di carnefici quasi sempre assolti. Solo nel triennio 1901-1903, fra le carte d’archivio consultate dalla regista, si conservano 632 processi penali per violenza carnale quasi tutti conclusi con l’assoluzione, 49 per aborto, 287 per adulterio, 406 per maltrattamento.
Rosa Maietta ha raccontato a NOIDONNE come è nato e come si è sviluppato il progetto delle carte d’Archivio e, contemporaneamente, quello del documentario. Di seguito l'intervista all'autrice e regista del docu-film ‘L’Eco dei Fiori Sommersi’.
Come e perché hai iniziato a lavorare all'Archivio Regio di Napoli e come sei entrata in contatto con le storie che vengono raccontate nel tuo film?
Ho cominciato a frequentare l'Archivio di Stato di Napoli perché mi era stato commissionato dalla società di produzione Ladoc un breve documentario sui lavori di restauro nella Sala Catasti (che compare anche nel film), dove sono stati riportati alla luce gli affreschi di Belisario Corenzio. Quindi già tra il primo e secondo lockdown spesso trascorrevo lì varie ore al giorno. Nel 2021 poi la direttrice dell'Archivio propone a Ladoc un documentario che raccontasse l'Archivio come “la casa delle storie”. A sua volta, la produzione mi chiese se volessi occuparmene io: accettai quasi subito, dimenticando per un attimo la vastità immane del materiale che lì giace. Dunque le prime settimane sono state letteralmente vertiginose, non avevo assolutamente idea di come interrogare il luogo. Durante la ricerca poi, nel 2021, ho subìto nel giro di quattro mesi due lutti molto gravi, mio padre e uno zio che era come un secondo padre, quindi in qualche modo è stato come se all'improvviso la mia famiglia non avesse più figure maschili. Erano rimaste le donne ma effettivamente, nella mia famiglia, sono state le donne le capofamiglia, ma da dietro le quinte.
A parte questo dettaglio personale, quando tornai in Archivio tutto mi sembrava diverso, feci un giro con un archivista, e quando scesi giù in uno dei sotterranei (che è quello che compare più o meno a inizio film) sentii come un richiamo, che lì stava succedendo qualcosa. Così chiesi alle archiviste (la maggior parte donne) se stessero autonomamente approfondendo qualche faldone: tutte l'avevano fatto o lo stavano facendo su altrettante storie di donne. Così Fortunata (Manzi, l’archivista) mi parlò di Linda e del 'germe rivelatore', Sonia delle malmaritate e a un certo punto Angelica mi mostrò la foto segnaletica di Emma: era assurdo il modo in cui la fierezza che lessi nel volto della donna somigliasse a quella che la mia nonna paterna ha sempre portato sul suo, nonostante le enormi “difficoltà” con cui ha dovuto fare i conti, e con difficoltà intendo anche un marito padrone e spesso violento.
Approfondendo le storie, poi, non mi sembravano così diverse da quelle che purtroppo sentiamo ancora oggi, e che alcune donne a me vicine hanno vissuto sulla propria pelle vicissitudini non molto lontane da quelle che leggevo, nonostante il tempo trascorso. Ecco mi sembrava che la risposta fosse lì: dovevo restituire una memoria e ridare una voce a chi non l'aveva avuta e attraverso di loro entrare dentro (e riportare fuori) una condizione che appartiene più o meno a tutte noi, a prescindere dal tempo e dallo spazio: cambiano le forme, ma spesso i contenuti sono immutati.
E soprattutto trasformare un linguaggio tecnico, freddo e maschile in uno più suggestivo, caldo e corale. E questo è avvenuto, bisogna dirlo, anche grazie a un cast e a una troupe, effettivamente quasi tutta al femminile, che ha sentito chiaramente l'esigenza e l'emotività del racconto e ha provato a tradurlo ciascuna con la propria arte.
Cosa rappresenta per te l'acqua, nelle tante scene del film in cui i corpi delle donne si immergono e si confondono nell'acqua?
C'è un passo molto bello ed efficace di un testo di Arlette Farge, che è stato un compagno di viaggio per la parte di ricerca di questo film, dove lei dice che “l'archivio affatica proprio fisicamente perché è eccessivo, invadente come le maree equinoziali, le valanghe o le inondazioni. E a chi lavora negli archivi accade spesso di immaginare il proprio percorso in termini di tuffo, immersione, addirittura naufragio...il mare insomma presente. Repertoriato in inventari, l'archivio suggerisce delle immagini marine anche perché si suddivide in fondi, fondi numerosi e ampi accatastati, a volte, negli scantinati delle biblioteche, simili a quelle enormi masse rocciose dell'Atlantico chiamate secche che si scoprono due volte all'anno, al tempo delle grandi maree”. Vi restituisco questo passo perché spiega abbastanza bene la sensazione di immergersi in un Archivio come questo e il tentativo di ricercare delle vite in questi “fondi” e negli angoli più remoti e nascosti. E io aggiungerei che somiglia di per sé al sott'acqua anche per una questione sonora, perché lì tutto avviene tra il silenzio e i rumori di fuori che giungono ovattati, proprio come è sott'acqua.
Ma certamente l'acqua è anche l'altro grande simbolo relativo alla nascita (e ri-nascita – vedi la rosa di Gerico che anche se secca e apparentemente morta per anni, torna in vita nel giro di mezz'ora se la si mette in appena un centimetro d'acqua) e, quindi, alle donne. Ma nello specifico, oltre al tuffo iniziale che è anche preparatorio al “tuffo” che lo spettatore/spettatrice sta facendo non sapendolo ancora, c'è un corpo in particolare che si abbandona all'acqua per poi “finire” lì, ed è quello relativo alla storia dell'aborto. Leggendo l'autopsia, mi colpì la parte dove si parlava delle “lavande a troppo alta temperatura”. Parlandone con mia madre, mi disse che effettivamente molti anni fa uno dei modi in cui si provava ad abortire era mettere i piedi o farsi un bagno in acqua bollente, poiché avrebbe sollecitato una dilatazione dei vasi e quindi una più semplice fuoriuscita del feto. Ed ebbi la visione della vasca e di un'immersione che porta a una fine, e soprattutto in quel caso l'acqua (che dà vita) era diventata un'arma per toglierla, intendo a Linda. Qualcuno ci ha visto il liquido amniotico e così via, ma questo lo lascio agli occhi altrui.
Perché hai preso in esame proprio il triennio 1901-1903 per raccontare i processi penali dove sono coinvolte le donne (per aborto, adulterio, maltrattamento, ecc., quasi tutti conclusi con l'assoluzione dei carnefici...)
In realtà le storie risalgono tutte agli inizi del '900, a parte quelle del “malmaritate rinchiuse nei conservatori”, che risalgono al '700, e che meriterebbero un altro film. Parlo nel cartello finale di quel triennio perché è l'unico periodo i cui processi sono stati digitalizzati (insieme a un altro paio di anni) e che si possono consultare online. Solo questi pochi anni qui, nonostante ci siano documenti dall'XI secolo. E una parte della ricerca l'ho fatta partendo proprio dall'inventario online, e avendo quegli anni a disposizione lì mi sono 'fermata'. Perché una volta che ho capito che questo era quello che volevo raccontare partendo dall'Archivio, le donne, oltre alle storie presentatemi dalle archiviste, la ricerca l'ho continuata da sola e il primo passo era cercare secondo parole-chiave. E i risultati online si riferivano solo a un tot di anni, perché ovviamente l'Archivio è in fase di digitalizzazione, lavoro che potrebbe richiedere anche secoli!
Quale approccio senti di aver avuto alle storie di queste donne, ad esempio quella della donna rimasta incinta quando il marito o fidanzato era soldato? Come era lo scenario dell'epoca secondo te?
Devo dire che il periodo della ricerca è stato attraversato da tanta tristezza e rabbia, sia per le cose che leggevo (perizie a volte agghiaccianti e sentenze spesso più che opinabili) sia per il fatto che quello che leggevo mi sembrava estremamente attuale. E spesso mi portavo a casa delle sensazioni che non riuscivo facilmente a scrollarmi di dosso, perché ogni volta finivo per mettermi nei panni della donna di cui stavo leggendo tutti quei dettagli tecnici e freddamente distanti, ma con un'emozione che non riuscivo ad evitare e che quindi generava empatia, quindi malessere. Ricordo precisamente i giorni in cui, per esempio, approfondii le violenze carnali, molte vittime erano bambine e leggerne le perizie mediche e così via mi faceva tornare a casa letteralmente con la nausea. Per quanto riguarda in particolare la storia di Linda, rimasta incinta di un altro mentre il fidanzato era al fronte, beh, devo dire che è una delle storie a cui sono più legata e non solo perché è stata una delle prime che ho incontrato.
Leggendo il faldone per intero e i tanti dettagli e testimonianze, mi è sembrato di sentire chiaramente la pena e un certo peso non solo di Linda, ma delle donne che durante la guerra (ma anche dopo) rimanevano da sole, ma non libere. Linda finisce per innamorarsi di nuovo in quel frangente, e di nuovo l'amore a un certo punto se ne va ma stavolta con un lascito importante. E la cosa ancora più terribile è il fatto che lei si sia sempre sentita nel torto, non parlava di questa cosa nemmeno con la sorella che era sua confidente, né a nessun altro, come risulta dalle testimonianze, fino a chiudersi in una stanza a provare la qualunque solo per togliersi di dosso (direi “da dentro”) quella che era una vergogna, un po' come succede anche nel film di Audrey Diwan, L'événement, e ancora prima nel romanzo autobiografico di Annie Ernaux! E l'archivista Fortunata, infatti, chiude dicendo che Linda non è morta tanto di aborto, quanto di paura, amore e vergogna.
Quali sono, se ci sono, i messaggi che vuoi veicolare attraverso il tuo film? Come l'arte può aiutare in questo senso?
Più che voler lasciare un messaggio, io avevo un'esigenza, anzi due. La prima era più personale ed era conseguente ai miei lutti, nel senso che per esorcizzare il dolore e trovandomi in un luogo della memoria per eccellenza, decisi di fare questo gioco illusorio con la morte, nel senso che lei se li era presi e io avrei provato a riportarli alla vita. La seconda riguarda una memoria più collettiva, di cui mi sono sentita nel mio piccolo responsabile e ho provato a raccontarne un pezzettino. Perciò il film, quindi il mezzo artistico, è stato un po' il mezzo per esprimere e lavorare su un processo sia personale sia più universale, processi che a un certo punto si sono combinati e che hanno dato vita a un piccolo lavoro per il quale ho avuto il privilegio di sentirmi libera, sia dal punto di vista stilistico perché infatti sono vari i linguaggi adoperati, ma anche dal punto di vista espressivo, nel senso che ad ogni punto di arrivo mi sembrava di essere riuscita a dare quell'urlo liberatorio che non ero riuscita a dare nella realtà. O forse sì, una sola volta sott'acqua, dove nessuno poteva sentire...
Cosa diresti oggi alle giovani donne che vogliono fare un lavoro di ricerca sulle condizioni delle donne nella storia o che vogliono fare le registe e parlare di questi temi?
Non so assolutamente cosa dire alle altre, ma mi sento solo di incoraggiare l'approfondimento di ogni tipo di necessità ed esigenza, di approfondire e indagare ogni vocina che viene da dentro o da chissà dove e di non trascurarla, perché forse quella è la voce più ancestrale e sincera che stiamo sentendo. Ma bisogna darle ascolto, anche se non è sempre così semplice, spesso è un viaggio intenso e tortuoso, soprattutto se riguarda figure a cui siamo legate, spesso nostre antenate (di sangue o meno), di cui poi siamo l'eredità, ma credo sia importante fermarsi e ascoltare sé stesse e la nostra loba, come la chiamerebbe Clarissa Pinkola Estés, perché è lì poi che risiede il richiamo per andare poi più in là. Quali pensi che siano le battaglie ancora da combattere per l'emancipazione femminile? Secondo te la parità oggi esiste o è ancora una meta da conquistare?
Dover parlare di “parità di genere” mi mette in un certo stato di angoscia, soprattutto oggi nel 2025. E sinceramente mi mette angoscia anche parlare semplicemente di “genere”, quando qui siamo prima di tutto persone, tutte/tutti/tuttu o tutte le vocali finali che vogliamo usare. E in quanto tali padroni di sé o così dovrebbe essere. Ma purtroppo non è così, c'è ancora chi sente di avere il diritto di poter scegliere per l'altra persona, e questo in realtà non è granché cambiato, anzi in questo momento storico è una questione più importante, accesa e preoccupante che mai!
- - - - - Rosa Maietta (Benevento, 1990): laureata in Lettere Moderne a Napoli, tra il 2013 e il 2016 realizza i cortometraggi ‘Senectus Ipsa Morbus’, ‘Parusia Napoletana’ e ‘Vorago’, che partecipano a festival nazionali e internazionali. È assistente al montaggio di ‘Agalma’ di Doriana Monaco (2020). Tra il 2019 e il 2020 lavora alla ricerca d'archivio e al montaggio di ‘Gli Ultimi Giorni dell'Umanità’ di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Nel 2024 firma il montaggio di ‘Il Capitone’ di Camilla Salvatore; è assistente alla regia di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman per ‘Vittoria’ (2024). ‘L'eco dei fiori sommersi’ è la sua opera prima che vince il primo premio in sviluppo nell’ambito di In Progress del Milano Film Network, e un premio di post-produzione al Bellaria Film Festival 2024.
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