Venerdi, 22/07/2022 - “L’uguaglianza dei diritti di fronte alla legge non dovrà essere negata o ridimensionata dagli Stati Uniti o da ciascuno Stato sulla base del sesso”. Questo è il testo dell’equal rights amendment, una norma similare al nostro articolo 3 della Costituzione. Una norma di cui molti e molte daranno per scontata l’esistenza nei democratici Stati Uniti d’America, autori della prima Costituzione scritta ancora in vigore dal 1789. Non è così, questa norma non esiste.
“Non saremo salve finché il principio della parità dei diritti non sarà scritto nel quadro del nostro ordinamento governativo”. Con queste parole Alice Paul sosteneva la necessaria introduzione dell’equal rights amendment nella Costituzione statunitense. Era il 1923. Mezzo secolo dopo, nel 1972, il Congresso approvò quel 27° emendamento alla Costituzione, trasmettendolo agli Stati federali per la ratifica e ponendo un termine di sette anni entro cui la ratifica avrebbe dovuto completarsi. Nel corso del primo anno l’equal rights amendment ottenne 22 delle 38 ratifiche necessarie; lo Stato delle Hawaii lo ratificò lo stesso giorno dell’approvazione del Congresso. Enorme e potente è stato il movimento femminista che ha lavorato per ottenere la ratifica; servirebbero troppe righe per elencare qui i nomi delle coraggiose donne che parteciparono a quel movimento a partire da Gloria Steinem, Betty Friedan, Bella Abzug, e non ultima, finché le è stato possibile, la first lady Betty Ford. Chi si opponeva a tale emendamento – in particolare Phyllis Schlafly – paventava che le donne sarebbero state obbligate a combattere in guerra, che non avrebbero più avuto il supporto economico e familiare dei propri mariti, che la parità avrebbe anche portato ad approvare i bagni unisex, l’aborto e i matrimoni gay; le donne e gli uomini che si opponevano all’ERA, insomma, difendevano il diritto delle donne ad una vita casalinga succube del potere e del volere di un uomo, senza alcuna prospettiva di realizzazione personale, formativa e professionale fuori dalle mura di casa. Nel trascorrere dei sette anni si arrivò lentamente a 35 ratifiche e il Congresso – su pressione del movimento pro-ERA – prolungò il termine fino al 1982. Nel 1980, all’elezione di Ronald Reagan come Presidente, il partito repubblicano ritirò il proprio appoggio all’emendamento. Il 1982 arrivò ma quell’emendamento che vieta ogni discriminazione sulla base del sesso non entrò mai in vigore nei democratici e liberi Stati Uniti.
Perché parlare oggi, a quarant’anni di distanza, di uno dei più grandi fallimenti – forse il più grande fallimento – del movimento femminista statunitense, che in quegli stessi mitici anni Settanta ha cambiato buona parte del mondo? Perché oggi, a quarant’anni di distanza, i diritti delle donne sono più che mai sotto attacco, semplicemente perché abbiamo dimenticato di difenderli, abbiamo smesso di rivendicarli, abbiamo dato per scontato di averli e così non ci siamo accorte che lentamente ci venivano sfilati da sotto i piedi.
Il 24 giugno la Corte Suprema statunitense ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade che nel 1973 aveva riconosciuto dignità costituzionale al diritto delle donne di decidere del proprio corpo e di abortire (fino alla viability del feto), riconoscendo tale diritto all’interno del diritto alla privacy, cioè alla tutela della sfera di vita privata della persona, sancito dal 14° emendamento. Mezzo secolo dopo la Corte Suprema afferma che no, il diritto di abortire non è previsto espressamente dalla Costituzione statunitense e perciò i legislatori degli Stati federali sono liberi di regolarne l’esercizio e di vietarlo. Le donne, in effetti, non sono nominate nella Costituzione statunitense, tranne che nel 19° emendamento che ha riconosciuto loro il diritto di voto nel 1920. “Non ti dimenticare delle donne” disse Abigail Adams a suo marito John, impegnato nel 1776 a scrivere la Costituzione, perché le donne non si sarebbero sentite vincolate da “alcuna legge in cui non hanno avuto voce o rappresentanza”; evidentemente lui se ne dimenticò. E dato che neanche il grande movimento degli anni Settanta è riuscito a colmare quella lacuna, oggi la prima Costituzione democratica della storia rimane priva di una dimensione femminile.
Il problema che questa decisione della Corte pone non riguarda però solo il merito specifico del diritto in questione, ma molto più ampiamente il destino dei diritti delle donne da un lato e la legittimazione stessa dell’istituzione Corte Suprema. Il sistema dell’ordinamento democratico statunitense si basa sui cosiddetti checks and balances – pesi e contrappesi: un organo, cioè, non deve avere mai un potere tale da non poter essere controbilanciato dagli altri poteri. Così, per esempio, il Presidente degli Stati Uniti ha il potere di nominare i giudici della Corte Suprema nel momento in cui uno viene meno, ma poi è il Senato a dover confermare quella nomina a pena di nullità. Inoltre la legittimazione del giudice in ogni sistema democratico si basa sulla sua neutralità politica: il giudice è un tecnico soggetto solo alla legge e, nei paesi di common law, ai precedenti giudiziari. Nel momento in cui questa legittimazione viene meno diventa difficile garantire il rispetto sociale dell’istituzione e delle sue azioni. Nel momento in cui i nove giudici costituzionali, invece che decidere in base all’interpretazione costituzionalmente orientata della legge, iniziano a decidere sulla base dei propri orientamenti politici si arrogano il potere di contraddire leggi votate dai rappresentanti eletti dal popolo, da “We the People”. Si passa cioè dalla legislazione sulla base dell’opinione politica di trecento milioni di cittadini, alla legislazione sulla base dell’opinione politica di nove cittadini. Perché, contrariamente a quanto recita la Dichiarazione di indipendenza, non esistono diritti “di per sé evidenti” nella politica.
L’incomparabile giudice Ruth Bader Ginsburg – che ha dedicato tutta la propria vita alla tutela dei cittadini e delle cittadine contro ogni tipo di discriminazione – prima di morire aveva pregato di non essere sostituita dall’uscente Presidente Trump, speranza che purtroppo è stata disattesa. Nonostante nel 2016 lo stesso Senato non aveva voluto confermare la nomina del giudice Marrick Garland proposta dal Presidente Obama poco prima delle elezioni.
Oggi la Corte Suprema è composta da sei giudici “conservatori” e tre “democratici”; ma il problema, a mio parere, sta esattamente in questa classificazione che semplicemente non dovrebbe esistere, neanche tra virgolette. Non ci possono essere correnti politiche nella magistratura. La Giustizia – con la G maiuscola – non esiste in Terra, semplicemente perché ciò che sulla Terra chiamiamo giustizia è anch’essa un prodotto dell’essere umano, che è di per sé imperfetto e di conseguenza non può che produrre cose imperfette; ma se filosoficamente parlando la Giustizia non potrà mai esistere, un sistema di organizzazione sociale che si proclama democratico deve adoperarsi per garantire la massima indipendenza della giustizia – con la g minuscola – da ogni contingente orientamento politico. E questo, nei democratici Stati Uniti, non sta accadendo. La sentenza Dobbs v. Jackson Women’s health Organization del 24 giugno è ancora più grave se si considera alla luce del fatto che i sistemi giuridici anglosassoni non si basano solo sulla legge, bensì anche e anzi soprattutto sui precedenti giudiziari (nel rispetto dello stare decisis): ebbene in questo caso la Corte ha negato l’esistenza di un diritto costituzionale che una precedente sentenza della stessa Corte aveva riconosciuto come esistente. Il contrario accade spesso, non solo in America, perché i diritti ci mettono sempre molto tempo ad essere riconosciuti quando vanno ad intaccare precedenti equilibri di potere. Ma che nel 2000 e qualcosa si scelga di tornare indietro anziché migliorare è davvero molto pericoloso. D’altra parte ciò accade in un mondo che pensava di aver messo da parte le guerre mondiali come vergogna del Novecento e che invece oggi ne parla, con una tranquillità inquietante, come di una possibilità più che concreta.
Sonia Sotomayor – giudice nominata dal Presidente Obama – si domanda: “Potrà mai questa nostra istituzione sopravvivere al puzzo sparso sulla pubblica percezione da questa pronuncia, che ha dimostrato come la Costituzione e la sua lettura non sono altro che un fatto politico?”
Il giorno prima del 24 giugno, quella stessa Corte ha emesso una sentenza da noi passata sotto silenzio che pure dice molto della direzione in cui il mondo – e non solo l’America - sta andando: New York State Rifle & Pistol Association v. Bruen. Dal nome dell’associazione si comprende che parliamo di armi. E di armi negli Stati Uniti ne sentiamo parlare spesso a proposito di stragi nelle scuole, nei centri commerciali e in strada; ne sentiamo parlare perfino quando un proiettile vagante uccide una ragazza che si trova al sicuro in casa sua, ma nell’angolazione sbagliata rispetto alla finestra. È noto che il 2° emendamento della Costituzione americana tutela il diritto dei cittadini a detenere armi. Non ci sono donne ma ci sono armi nella Costituzione, già questo dovrebbe dare da pensare. La sentenza del 23 giugno afferma che non solo i cittadini americani hanno diritto di detenere armi in casa ma anche di portare le armi con sé fuori da casa, negando così validità all’impugnata legge di New York che richiedeva una valida ragione per ottenere il porto d’armi.
È curioso che la Corte Suprema si preoccupi della futura e potenziale vita dei feti ma non della vita attuale dei suoi cittadini viventi. “Per ragioni che sfuggono alla comprensione, la gente non collega le pistole ai crimini collegati alle pistole”, si affermava acutamente nel film “The American President” (1995). Ad ogni nuova strage l’americano che si sente ancora un pistolero del far-west non pensa che è proprio la grande disponibilità di armi a favorire quelle uccisioni, bensì pensa ad acquistare nuove armi per difendersi dagli assalti altrui, creando così una spirale di violenza destinata a non arrestarsi mai, e arricchendo i produttori di armi che nuotano nell’oro imbevuto di sangue che questa sentenza non fa altro che aumentare.
I nove giudici della Corte Suprema terminano il loro mandato solo per morte, dimissioni, o impeachment. Le decisioni della Corte Suprema sono insindacabili, possono essere superate – come si è visto - solo da un’altra sentenza della stessa Corte. Oggi i sondaggi dicono che la fiducia degli americani nella Corte ha subìto un tonfo dopo queste sentenze. I diritti delle donne che con immensa e inimmaginabile (da chi è nata dopo quegli anni) fatica erano stati conquistati sono oggi buttati via come orpelli inutili di un mondo che continua a preferire la violenza, il profitto cieco, l’egoismo assoluto. Chi ha lottato - e lotta ancora oggi - per l’equal rights amendment non desidera affatto un mondo in cui le donne siano obbligate ad andare in guerra: desidera un mondo in cui la guerra sia finalmente fuori dalla storia, desidera un mondo in cui la parola libertà possa essere scritta con la L maiuscola, e desidera un mondo in cui la Giustizia si possa intravedere – appena intravedere – come una piccola lampadina nel fondo di un pozzo buio.
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