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We can? No, WE can’t

We can? No, WE can’t

Made in U.S.A. - Alcune riflessioni dopo la vittoria di Barack Obama alle presidenziali degli Stati Uniti. Per la prima volta nella storia un afroamericano alla Casa Bianca. Comunque è un uomo.

Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2008

Faremo a lungo i conti con la vittoria dei democratici negli Stati Uniti, vittoria storica per molte ragioni. In primo luogo per la metodologia elettorale di cui anche in Italia si dovrà tenere conto: comizi a tappeto, lavoro porta a porta, ma anche milioni di telefonate e lavoro intensivo di blog e e-mail. Poi, Fund raising - che vuol dire raccolta di danaro - fatto con tutti i mezzi, soprattutto quello popolare a mezzo telefonini. La mobilitazione delle coscienze si è basata sul richiamo a principi non astratti e su nuove, non facili politiche. Nella lista delle promesse la riduzione delle emissioni di anidride carbonica insieme con la produzione di auto elettriche; il ritiro delle truppe dall’Iraq e il controllo, a beneficio dell’attività diplomatica, dei servizi segreti per evitare le false prove della guerra in Iraq; l’attenzione militare sull’Afganistan e il Pakistan e l’attacco al terrorismo; l’eliminazione delle armi nucleari dal pianeta e la regolarizzazione dei milioni di armi private dei cittadini americani; il raddoppio degli aiuti Usa per dimezzare la povertà estrema e i diritti umani, l’aborto, i matrimoni omosessuali (appena negati dal referendum popolare in California).... Risultato: una partecipazione eccezionale di votanti e la maggioranza democratica nei due rami del Parlamento.
Oppure è vero che le promesse non sono state meno importanti del richiamo implicito nel colore della pelle che ha determinato sia la partecipazione dei più svantaggiati di solito rinunciatari, sia dei veri democratici antirazzisti? Obama è stato - e resta - un manifesto vivente del suo motto: We can. Speriamo che ce la possa fare anche guidando la barca che naviga acque tanto tempestose. Le crisi non portano bene ai governi progressisti se non mantengono le promesse elettorali mentre incalza la disoccupazione e la gente impoverisce. Solo il bravo statista sa persuadere che i sacrifici valgono la pena e salva la bandiera della democrazia, facendo della crisi un fattore positivo che può aiutare il paese. Speriamo che l’auspicio possa valere anche in Europa.
Ma una cosa va evidenziata: il colore ha battuto il genere. WE CAN’T.
Come a metà del XIX secolo alle donne che invitavano le altre donne alla partecipazione perché il governo aveva ammesso al voto i coloured , la Suprema Corte rispose che no, la parola man (uomo) era da intendersi come male person: solo i maschi accedevano i diritti elettorali attivi. Oggi il popolo bianco, nero o latinoamericano conferma.
Personalmente continuo a pensare che Hillary Clinton avrebbe dato maggiori benefici anche agli americani neri, ma non è più questo che conta. Conta che il popolo si riconosce nel potere “neutro”. Come abbiamo sempre detto: maschile. Non si sa ancora come (e se) il leader prescelto darà soluzione alla crisi che sta mettendo alla prova chi ha perduto la casa per i fallimenti di manager e banche o come navigherà nella politica internazionale. Intanto la disoccupazione cresce, americani continuano a morire a Bagdad; la moral majority si farà sentire (il Vaticano non ha propriamente benedetto questa elezione); la riforma sanitaria richiederà i suoi anni; la scelta ecologica, che può diventare un grosso business, non realizzerà rilanci economici in breve... E’ nella solidarietà di tutto il popolo nella navigazione che si vedrà quanto sia vero che we can. Non solo in Usa.
Anche nella generalizzazione neutra “we”, noi, noi donne, come ci stiamo? Insieme nell’entusiasmo, nella scelta di un leader? Contro la Palin reazionaria? e perdenti nel sostenere Clinton? Obama non ha detto ”metà governo alle donne”, anche se qualche ministra la recluta. Ma non ci sono state donne che abbiano chiesto di esserci come “genere”.
Il femminismo americano non è di sicuro un capitolo di retorica letteraria e ha compreso anche un’ala rivendicativa di diritti propri di ulteriore “differenza” per le donne nere. Tuttavia la sua incidenza politica è molto, ma molto scarsa; hanno lasciato McCain presentare - per la vicepresidenza - una “pitbull” familista come attrattiva femminile, e Obama escludere le donne dalla carica, tagliando alla radice ogni illusione simbolica. Politicamente per le americane i principi democratici si fermano al voto e al supporto alle elezioni dei maschi. Poco lontano da Seneca Falls.
Spostiamo l’attenzione sull’Europa. Non stiamo meglio delle americane. I media registrano il nostro lento avanzare numerico nei posti di lavoro e perfino nelle cariche; ma anche dove l’occupazione femminile rientra negli standard di legge la lavoratrice guadagna meno del lavoratore a parità di funzione. Una donna guida la Confindustria, ma le priorità nelle previsioni economiche non cambiano; neppure se fosse progressista la riproduzione entrerebbe nel PIL. La donna senza qualità, quella che ti dice le sue perplessità politiche “perché sono tutti uguali” capisce che politicamente le donne possono solo fare denunce senza cambiare cultura perché prive di potere. I gruppi e le associazioni di vario femminismo lavorano moltissimo, ma senza visibilità e nella disattenzione velata di paternalismo dei maschi degli assessorati, dei partiti, delle università che “ti vengono incontro”, ma, se ti finanziano un’iniziativa, si guardano bene dall’assumerne i risultati. E la stampa e le tv private e pubbliche ti silenziano...
Intanto molte donne si impegnano nella politica e nell’antipolitica. Dove si tengono le primarie si danno molto da fare e comunicano in rete a tutto spiano. Possono sentirsi estranee ai partiti e sostenere la lista civica o il personaggio ragguardevole, ma in nessun posto che io conosca, per portare avanti una di loro.
Le primarie sono diventate una moda (e avranno un loro costo quando ci si accorgerà che si è aperta una pratica non contenibile che finirà per misurarsi con il modello americano da cui deriva e che avrà bisogno di competitività forte e di grandi mezzi). Noi, che pur le sosteniamo in gran numero e ci lavoriamo, non abbiamo avuto la forza di scegliere qualche mese fa donne su cui realizzare un programma davvero competitivo.
Mi sembra strano che, se, come appare, il governo italiano mantiene nelle mani dei partiti la scelta dei candidati, nessuna donna chieda che almeno il partito che si dichiara “nuovo” si assuma la responsabilità di promettere che, almeno nelle proprie liste, manterrà l’alternanza della legge democratica di un nome maschile e uno femminile in successione.
Ormai per le sindache delle città che rinnovano le amministrazioni nel 2009 è tardi per avanzare richieste. Ma per le europee lasciamo fare? Solo i segretari sanno che cosa è meglio per la città delle donne?

(2 dicembre 2008)

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