Ghana - Sei campi-prigioni nel nord del Ghana fanno da rifugio a oltre 500 donne. Isolate, picchiate, allontanate dalle comunità perché accusate di stregoneria
Antonelli Barbara Domenica, 01/12/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2013
In Ghana e in altri paesi africani lo chiamano juju. È un insieme di superstizioni, riti e credenze della tradizione popolare, ancora vivi nelle comunità rurali e non solo. Avviene così che centinaia di donne vengono accusate di stregoneria, dai loro familiari e dalle comunità in cui vivono, colpevoli di aver provocato la morte di qualcuno, una epidemia, un’ondata di siccità, o di essere apparse in sogno, con presagi funesti. Le streghe del Ghana, vivono in 6 “campi” (Gambaga, Kukuo, Gnani, Bonyase, Nabuli and Kpatinga) nella regione a nord del paese, al confine con il Burkina Faso. Prigioniere del pregiudizio e della miseria. Ma comunque vive. In passato, molte presunte streghe sono state uccise, brutalizzate, date alle fiamme come si fa con i covoni di paglia secca. Ancora nel 2010 la storia di Ama Hemmah, una settantaduenne ghanese scampata alle fiamme ma rimasta con gravi lesioni in tutto il corpo, era sulle pagine dei giornali britannici. Questi luoghi di confino, ammassi di capanne e fango, senza elettricità né acqua potabile o servizi igienici, sorgono a poche centinaia di metri dai villaggi abitati; senza recinti o mura, esistono da oltre 100 anni e vengono considerati luoghi “sicuri” dall’intera comunità perché la credenza popolare vuole che in essi non si possano svolgere riti di stregoneria. Nel 2011, quando il governo ghanese ne ha annunciato la chiusura, molte ONG, tra cui ActionAid (presente nei campi dal 2005) si sono opposte al loro smantellamento, in assenza di politiche di ampio respiro. “Il cambiamento culturale e il reintegro nelle comunità di appartenenza sono processi lunghi - dice Esther Boateng, Programme manager di ActionAid Ghana - si tratta di lavorare sulla comune consapevolezza che il rispetto dei diritti umani deve essere garantito a tutti, uomini e donne. Il rischio è che la chiusura dei campi, senza un efficace lavoro sulle comunità, esponga le donne a nuove discriminazioni e violenze. I dati ci mostrano che il 40% delle donne che sono state reintegrate, sono poi ritornate al campo entro un anno.” Molte altre nel corso di questi anni hanno preferito rimanere nei campi piuttosto che tornare nei villaggi di appartenenza, per non correre il rischio di essere incolpate nuovamente. Wagau 60 anni, vive con altre tre donne, in una capanna di fango a Gnani. È stata accusata oltre 15 anni fa della morte del suo cognato più giovane. È stata accompagnata nel campo dal figlio che in più occasioni ha chiesto al villaggio se la madre potesse tornare a casa. Ma la comunità ha sempre rifiutato e suo figlio continua a andarla a trovare, sperando di riaverla un giorno a casa. Una volta accusate di stregoneria, tutto avviene in fretta. La “strega” viene mandata in isolamento nel campo, senza che abbia nemmeno il tempo di recuperare i suoi oggetti personali. A lei penserà il tindana, il capo materiale e spirituale del ghetto. È lui a provvedere ad una sistemazione per la nuova arrivata, al cibo. Il tindana ha non solo la responsabilità dell’intero campo, ma anche quello di provare, attraverso una serie di rituali, l’innocenza o la colpevolezza della donna, e di celebrare una cerimonia di purificazione. In alcuni dei campi, la tradizione vuole che un pollo venga ucciso: se morendo cade a testa in giù, la “strega” è considerata colpevole. È comunque raro che le donne considerate innocenti decidano di fare ritorno alle loro comunità; hanno troppa paura. Le donne più anziane sono in genere accompagnate da bambine o adolescenti, per un sostegno alla vecchiaia. Così centinaia di nipotine, orfane o bambine che la famiglia non riesce a mantenere, vengono mandate nei campi, sottratte al sistema educativo nazionale e di fatto discriminate e private della loro vita. L’accusa di stregoneria, come in altre culture, costituisce un capro espiatorio dietro il quale la comunità si rifugia in caso di eventi tragici. A’dam Lamnatu, della coalizione Songtaba che è partner di ActionAid, quando mi accompagna a Gnani (campo che ha la particolarità di accogliere anche uomini accusati di stregoneria e riti magici), mi racconta che negli anni passati il numero delle “streghe” è spesso aumentato in occasione di epidemie quali morbillo, poliomelite e meningiti oppure di prolungate siccità. Alla credenza popolare si mescola una discriminazione di genere (gli uomini accusati riescono in molti casi a reintegrarsi): di fatto la maggior parte delle donne esiliate sono donne che hanno infranto lo stereotipo sociale, come “le zitelle”, le donne che non possono avere bambini; alcune sono affette da disturbi psicologici come la depressione; altre sono più vulnerabili dal punto di vista sociale perché rimaste vedove o senza figli, non hanno nessun uomo che possa proteggerle. La comunità le percepisce come donne che non sono in grado di contribuire né economicamente né socialmente, quindi “inutili”. Sembrerebbero confermarlo i dati di un’indagine svolta da ActionAid: a Kukuo, il 70% delle donne accusate di stregoneria, è costituito da vedove, esiliate dopo la morte del marito; un terzo delle donne accusate non sono impegnate in nessuna forma di attività economica. I “ghetti” del Ghana sono di fatto una manifestazione delle disuguaglianze di genere presenti nel paese e non è un caso che esistono solo nelle regioni a nord, dove più alte sono le percentuali di povertà. I numeri confermano però che il lavoro di sensibilizzazione sui diritti umani che si sta portando avanti in quest’area, sta dando alcuni frutti: dal 2008, in cui le streghe erano oltre 3000, il numero delle donne che vivono nei 6 “campi” è sceso a 573.
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