Violenze domestiche e divieto di imparare l’italiano. Una 'piccola' notizia racconta un grande tema
Oltre ad abusi e violenze inimmaginabili del padre e dello zio, la giovane indiana ha subito il divieto di studiare l'italiano, strumento basilare per la libertà di scelta. La denuncia e il rinvio a giudizio
Giovedi, 29/05/2025 - Il femminile di giornata. sessanta / Violenze domestiche e divieto di imparare l’italiano
Non conosciamo il nome della ragazza indiana della quale a fine maggio, dopo 4 anni dai fatti, ci viene raccontata la dolorosa vicenda nella cronaca di Roma. L'occasione è il rinvio a giudizio dei suoi carcerieri: il padre e lo zio. Quanto si apprende merita una sottolineatura e una riflessione per la permanente attualità di una terribile storia di sopraffazione e violenza, una storia che richiama una ulteriore angolatura di riflessione.
La ragazza aveva quattordici anni quando suo padre rincara la dose di cattiverie e violenze che già le riservava, scoprendo che cerca di imparare l’italiano per comunicare col mondo esterno e per andare oltre la sua famiglia in cui si trova rinchiusa, suo malgrado. La proibizione di imparare la lingua del paese in cui vive, il divieto, dunque, d’integrarsi è ulteriore fonte di botte, violenze e abusi d’ogni tipo da parte del padre a cui si aggiungono anche quelli sessuali dello zio.
La situazione - già difficile, da quello che leggiamo - precipita con l’ammalarsi della madre che, entrando in ospedale, costringe la giovane ad occuparsi a pieno regime di casa e famiglia, aggravando in termini di cattiveria e soprusi il rapporto col padre, che la maltratta, la picchia, la umilia e tutto quanto di terribile è possibile quando al senso del possesso della propria figlia si unisce il piacere evidentemente di usarla come un oggetto a propria disposizione. A tanto orrore si aggiunge l’abuso sessuale da parte di uno zio coimputato, non a caso oggi, col padre.
La disperazione della giovane è tale, e si può presumere il senso d’impotenza data anche la sua giovane età che tenta il suicidio per sottrarsi a una vita troppo dolorosa e lo fa bevendo un bicchiere di varecchina.
Fortunatamente non solo “il veleno” non fa effetto ma è presumibile che risvegli in lei la determinazione a difendersi e a voler vivere se sceglie, come leggiamo, di denunciare ai Carabinieri la violenza, i soprusi di padre e zio. Sono passati quattro anni e lei, che ha ora 18, è ormai maggiorenne e affronta il rinvio a giudizio dei suoi “padroni violenti”.
E’ infatti solo la convinzione che una persona, una figlia, una nipote sia una cosa che ti appartiene che può portare a storie -tante- come questa, di cui conosciamo i soli tratti essenziali ma quanto basta per essere con lei, con questa giovane nuova e benvenuta italiana per dirle alcune cose.
Se potessi conoscerla questa ragazza dalla storia triste e impregnata di cattiveria, subita da chi dovrebbe darti amore, ma contemporaneamente coraggiosa e determinata a vivere, dopo averle chiesto il suo nome, la mia seconda parola sarebbe di ringraziarla di aver pensato che imparare la lingua del paese in cui abita sia, non solo un atto utile ma giusto e importante.
Non tutte e tutti coloro che emigrano lo considerano decisivo come lei.
E’ infatti il parlare italiano, il parlare la lingua del paese dove vivi, il comunicare col mondo con cui convivi che ti fa integrare, crescere condividere con gli altri e diventare parte di una società in uno scambio che è o dovrebbe essere, crescita e arricchimento per tutti. Integrarsi e poter costruire un proprio progetto di futuro è un obiettivo in cui la conoscenza, la pratica, l’uso della lingua è essenziale.
Non a caso anche il padre della giovane lo sa e la blocca o tenta di farlo temendo possa rafforzare la sua autonomia. Scoprire che sua figlia impara l’italiano significa, per lei, possibilità e speranza di libertà e di misurarsi e poter aspirare a progettare il proprio domani, avere più “strumenti” per sapere come fare. Questo uomo, indegno come padre lo capisce così bene e lo teme così tanto che le proibisce, una volta in più con violenza, l’uso dell’italiano e tenta di alzarle un muro che la rinchiuda al suo servizio e la pieghi alla sua visione del mondo. Per fortuna, per quel che abbiamo saputo su di lei, la nostra nuova italiana non si è arresa e sta faticosamente lottando per ottenere una dolorosa giustizia e potere, così, avere diritto a vivere.
Chissà che tra le altre notizie che non sappiamo ci sia quella che essendo già legalmente cittadina italiana e avendo 18 anni non possa anche votare ai referendum, volendo sottolineare, in particolare, per quanto scritto fin qui, quello sulla possibilità, per chi è emigrato e vive in Italia, di richiesta di cittadinanza dopo 5 e non più dieci anni di vita continuata nel paese.
C’è ancora una curiosità che emerge, per me, su quanto non ci è dato sapere, per la giusta riservatezza che certe storie richiedono, nel rispetto delle persone, ovvero se la nostra ragazza da quando ha denunciato i suoi carcerieri, immagino conquistando un luogo dove potesse ripararsi, abbia finalmente potuto studiare e imparare, come desiderava, l’Italiano. Mi piacerebbe dialogare con lei. Potremmo scambiare idee proprio sui suoi problemi ed anche su quel tema enorme che è l’emigrazione che va, sì regolamentato, ma guardato con rispetto e considerato una ricchezza quando avviene in modo ragionato e prevede, da parte di chi emigra, innanzitutto il desiderio d’integrarsi, di far parte del paese in cui si è arrivati partecipando del suo sviluppo e contaminandosi della sua cultura e facendola convivere e mescolarsi con la propria, nel rispetto reciproco e nella reciproca convivenza e convenienza.
Paola Ortensi
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