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Violenza di genere o generi di violenze?

Violenza di genere o generi di violenze?

Giornata di studio presso il tribunale di Taranto contro ogni forma di violenza.

Martedi, 31/10/2017 - Violenza di genere o generi di violenze? Questa è la domanda chiave che ha aperto la giornata di studio presso il tribunale di Taranto. E che ha dato il titolo allo stesso convegno. Il 26 Ottobre 2017 il comitato per le pari opportunità dell’ordine degli avvocati di Taranto ha voluto fortemente che si dedicasse una intera giornata allo studio sulla violenza di genere, sulla violenza in famiglia, anche quella subdola, psicologica e difficile da dimostrare presso le aule dei Tribunali.

La prima parte della giornata ha posto l’attenzione sul tema delle violenze domestiche e ripercussioni sui minori, la seconda parte interessava i temi sulle discriminazioni sociali, sessuali e razziali. Tutti i lavori venivano introdotti e moderati dal deus ex machina dell’evento: l’avvocato penalista Mariangela Gigante.

È stato citato in primis l’articolo 572 del codice penale: “Chiunque maltratti una persona della famiglia o comunque convivente, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.

Non ci sono stati solo riferimenti a gravi fatti di aggressione fisica ma anche situazioni in cui la vittima vive quotidianamente umiliazioni che ne sminuiscono la persona. Da qui la figura del maltrattante che ha piena coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità. In alcuni casi, come si evince da altri convegni e da altre testimonianze che hanno trattato lo stesso codice, ci sono stati exempla di come la persona maltrattante abbia giustificato i suoi comportamenti umilianti e offensivi facendoli passare come fatti problematici di interpretazioni relazionali della compagna o convivente, come temi posti “dal marito” che riguardavano rispetto di orari, organizzazione e indirizzo della vita famigliare, accudimento del coniuge, in una parola erano azioni poste esclusivamente per finalità educative come se la moglie fosse un minore da indirizzare a livello educativo.

Da qui le pene corporali e verbali verso chi non segue “le organizzazioni e l’indirizzo della vita familiare”. Che erano un fatto naturale ai tempi dei romani. Come giustificare oggi? Cicerone ci dice che il padre aveva addirittura il diritto di affogare il nascituro se era difforme dalla normalità. “Era un mostro, bisognava eliminarlo”, interviene il professor Aurelio Arnese (Diritto romano, Università di Bari e Taranto): “in uno Stato che si reggeva su armes et leges. Un padre con potere di vita e di morte capace di selezionare la razza, gli individui a sua discrezione. Un padre con potere punitivo e repressivo”.

Continua Arnese: Infirmitas sexus. Soffermiamoci su questa concezione della donna mutilata, una inferma anzi, che arriva ai giorni nostri, non per un fatto giuridico perché cancellata anche se in ritardo dai nostri codici, ma come retaggio culturale. Il principio giuridico dell’impedimento dovuto al sesso è stato forse il più duro da rimuovere nell’ordinamento italiano, dai codici civile e penale. Una legge in cui si faceva rientrare ogni tipo di pregiudizio: l’incapacità di autonomia, l’ignoranza, la natura domestica, l’inferiorità fisica, addensati in una locuzione tranciante utilizzata come inappellabile argomento giuridico”.

Proprio con la ragione dell’infirmitas sexus, la Cassazione di Torino confermò il divieto di iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Lidia Poët, nell’aprile 1884. Con la stessa motivazione, nel 1906 la Corte di Appello di Firenze escluse l’iscrizione femminile nelle liste elettorali: «la donna ob infirmitatem sexus non ha né può avere la robustezza di carattere, quella energia fisica e mentale necessaria per disimpegnare come l’uomo le pubbliche cariche»

“Non solo i romani avevano questa concezione di superiorità del pater familias, i greci vanno oltre e inseriscono nel filone educativo repressivo la donna. Considerata un male necessario, addirittura razza maledetta da Esiodo.

E torniamo ai fatti di oggi, sembra anacronistico ma non lo è. La violenza corporale sulle donne, il diritto di decidere su di loro. Tanti sono i casi di questo genere. Poche in confronto le denunce.

“A volte” dice la moderatrice Gigante, “la via del silenzio si paga, è una violenza su se stessi”. Cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, non si possono chiamare “vita”. Le violenze costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare la donna. Denunciare è un diritto per se stessi, un dovere per la collettività.

elenamanigrasso@virgilio.it

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