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Viaggiatrice e cronista in Turkestan

Viaggiatrice e cronista in Turkestan

Ella Maillart - Negli anni Trenta in Unione Sovietica “i primi rarefatti segnali di una difficile emancipazione femminile”

Cristina Carpinelli Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2006

Vagabonda nel Turkestan di Ella Maillart (edizioni E.D.T.) è un diario di viaggio vivace e in-telligente. Oltre ad essere “un avventuroso vagabondaggio intrapreso dall’autrice del libro, nel 1932, lungo le montagne e i deserti dell’Asia centrale, in assoluta solitudine”, è anche un reportage che alterna la descrizione di città d’incomparabile bellezza come Samarcanda, Bu-khara e Khiva, con il tentativo di spiegare la complessità di una regione, il Turkestan, cro-giuolo di culture e nazionalità molto diverse, sottoposta all’incessante integrazione delle sue strutture economiche e sociali alla pianificazione sovietica.
In effetti, l’itinerario richiama costantemente la progressiva condanna all’arretratezza del pa-trimonio inesauribile di civiltà delle popolazioni centro asiatiche, di fronte all’avanzata della modernità sovietica tesa ad intraprendere in quelle lontane terre una lotta tenace contro le so-pravvivenze del tribalismo e del feudalesimo dichiarate dal bolscevismo “crimini di tradizio-ne”.
Il viaggio si snoda lungo grandi imprese di decollo industriale, come la costruzione della li-nea ferroviaria Turk-Sib, per l’importazione di cereali (“indispensabili per nutrire il Turke-stan, paese in cui il cotone ha quasi del tutto sostituito ogni altra coltura”) e legname diretta-mente dalle zone produttrici della Siberia occidentale, e per l’esportazione del cotone grezzo da destinare alle industrie tessili della Russia europea resa finalmente indipendente dal com-mercio del cotone americano ed egiziano.
La Maillart si sofferma sugli squilibri sperimentati nella regione con l’introduzione della mo-nocoltura del cotone, che ha sostituito le grandi risaie “mantenute con tanta cura”. Visita in un villaggio, nei pressi di Taškent, un kolchoz agricolo e s’informa presso i capi locali delle ri-forme agrarie avviate, che riguardano sostanzialmente il regime delle acque, oltre che la redi-stribuzione delle terre. Prende atto delle misure eccezionali applicate dai soviet per inculcare a quelle popolazioni per lo più nomadi il concetto di socializzazione della terra (“l’opera di convinzione tra gli indigeni che la spartizione delle terre non era condannata dalla sharia né dal Corano, fu possibile grazie all’approvazione del clero musulmano”), e come l’ondata del-la collettivizzazione socialista nelle campagne abbia causato un certo livellamento delle con-dizioni sociali (con l’abbattimento della classe dei possidenti), ma anche l’alienazione di quelle genti libere di pascolare le greggi nelle grandi pianure, ed ora costrette al lavoro stan-ziale dei campi e a ritmi forzati per raggiungere i risultati imposti dal Piano quinquennale, in cambio dell’ottenimento del grano. Finisce, tuttavia, l’epoca della grande dipendenza dell’Oriente sovietico dal mercato cotoniero capitalista ed inizia il complesso e grandioso processo di secolarizzazione e d’alfabetizzazione.
In questo clima, pervaso dal contrasto violento tra modernizzazione sovietica e sopravvivenza di culture autoctone, la Maillart spia “i primi rarefatti segnali di una difficile emancipazione femminile”. Ella ha un occhio particolare verso la condizione delle donne, ed anche qui e-mergono subito difformità stridenti: “musulmane velate e - quale sconcerto! - le loro sorelle in fabbrica, operaie.Vestigia di Timur, attorno a cui si va formando il proletariato per edifica-re il socialismo”. A Samarcanda, dopo un giro per madrase, moschee e mausolei, resti di po-tenti khanati di principi mongoli, seminatori di terrore e distruzione dall’India all’Egitto, ma che pure seppero creare monumenti d’inusitata bellezza, Ella visita la fabbrica Khudjum (il cui termine vuol dire letteralmente “offensiva alla vecchia vita quotidiana”, identificata con la lotta contro la parandja - simile alla burqa afgana - e il velo, in nome di una liberazione totale della donna), che produce seta e dove vi lavorano operaie “emancipate”, e l’artel, la coopera-tiva, delle ricamatrici. Assiste, inoltre, nel cortile di una madrasa, alla lavorazione di una tela intitolata La giornata dell’8 marzo in piazza Registan, opera dell’artista Benkov, e realizzata perché “a quella data cade la festa dell’emancipazione femminile e in quell’occasione vengo-no bruciati grandi mucchi di čador”. Descrivendo aspetti di vita quotidiana, Ella annota i comportamenti delle donne “confinate per lo più in un silente sfondo”. Nello stesso tempo, dal colloquio con la direttrice del zhenotdel (Ufficio femminile) viene a conoscenza dell’attività delle sezioni femminili del partito, che, pur incontrando resistenze e dinieghi tra le donne orientali, si sono impegnate a fondo per l’ingresso di quest’ultime nel mondo del la-voro e per la loro istruzione in precedenza proibiti. Ma - sottolinea la Maillart - “in questo pa-ese si vive ancora in pieno Medioevo: occorre non dimenticarlo mai”.
Nel bel mezzo degli scontri dei “rossi” contro i basmači, un tempo briganti “in groppa a velo-ci cavalli, i cui zoccoli larghi, mai ferrati, non sprofondano nella sabbia”, ed ora controrivolu-zionari nazionalisti, le donne indigene di questa regione a sviluppo ritardato (in larga parte contadine), con iniziale diffidenza e relativa passività, si appropriano attraverso un lento pro-cesso di apprendimento dei loro diritti soffocati da una cultura religiosa e da un patriarcato a loro ostili. Ignare di qualsiasi cura medica e dell’uso del sapone, affidate soltanto al consulto della falbin, la donna sciamano che cura compiendo esorcismi, si rivolgono adesso ai consul-tori d’igiene e sanità voluti dai soviet locali. E tra le rovine di Bukhara, nota per i suoi alle-vamenti di pecore karakul e per i suoi tappeti di colore scuro (tekinski), ma dove ora “solo il cotone è importante”, è possibile assistere a risse di donne contro i mullah, i capi religiosi, re-frattari alla soppressione del chador.
Ella prosegue verso le sue mete leggendarie, lungo il corso dell’Amu Darja, l’antico grande Oxus che nasce nel Pamir, e giunge a Turtkul, capitale dei Karakalpachi, “destinata a scompa-rire per via dell’erosione del fiume” ma che, insieme a Karakul, macchia verde in mezzo a campi dorati di cereali, dove ancora vivo è il ricordo della repressione cosacca del 1916 ad opera dell’esercito rosso, rappresenta davvero “il paese della cuccagna”. Qui i mercati locali brulicano di mercanzie e di cibo; non si respira più la miseria assillante e il senso di abbando-no, che avvolgono Bukhara. Tappa successiva è Khiva, “un tempo capitale mongola e ora sof-focata dalla sabbia che inesorabilmente l’invade”, dove, nella seconda oasi, ad Ak-Mecet, “ricca di albicocchi”, l’autrice incontra una colonia tedesca di mennoniti (setta anabattista fondata dal riformatore olandese Menno all’inizio del XVI secolo), originaria della Repubbli-ca del Volga. Si dirige, poi, verso il Nord sconosciuto, diretta a Čimbaj. Il freddo del grande buran, il vento del deserto delle Sabbie Rosse, che la Maillart attraversa in pieno inverno, è impietoso. In groppa al suo cammello, il “Bastardo”, dalle ciglia costellate di lacrime di ghiaccio, Ella percorre cinquecento chilometri di deserto, lambendo le rive del lago d’Aral, là dove “cielo e ghiaccio si confondono in un’unica, grigia, distesa”. Infine, passando per la steppa sommersa di neve fresca, dopo aver attraversato il fiume Syr Darja, le si parano dinan-zi agli occhi gli alti pioppi della città di Kazalinsk, dove termina il suo viaggio “di grande va-lore documentario e di straordinario spessore umano”.
(30 settembre 2006)

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