Dalla Serbia a Napoli - … ma solo per le figlie. Diario della visita e degli incontri nel campo Rom di Scampia
Prota Giurleo Antonella Martedi, 21/02/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2012
Vesna Jevremovic è una donna di origine serba che vive con il marito Dejan e con le loro quattro figlie nel campo Rom di Scampia, quartiere napoletano tristemente noto per la presenza della camorra, molto meno per il gran numero di persone per bene che ci abitano. Vesna proviene da una famiglia composta da madre, padre, otto figli e sei figlie. “Una bella squadra!” dice. Viveva in un villaggio della Serbia quando la povertà indotta dalla guerra ha costretto lei, Dejan e la piccola Romana, nata del 1996, all’emigrazione in Italia. Alla mia domanda se siano venuti direttamente a Napoli risponde di sì; non è mai stata nomade, né lei né la famiglia che, a poco a poco, è cresciuta. Come tante e tanti del popolo Rom, sono stanziali. I suoi fratelli, i suoi genitori e gli stessi familiari di Dejan, anch’essi costretti dalla povertà e dalla guerra, erano venuti in Italia e avevano trovato una sistemazione a Napoli. Successivamente sono tornati in Serbia, ma la strada era stata aperta e il luogo indicato: il campo di Scampia. Un campo vasto, dove vivono circa 107 famiglie per una totalità di circa 730 persone, in cui le baracche sono state costruite con mezzi di fortuna; all’interno, attirano l’attenzione per i particolari e un luccichio di specchi e soprammobili inaspettato. Case curatissime, con le tendine alle finestre, la pavimentazione, il soggiorno e il tinello con soprammobili e piante sospese; un interno che contrasta nettamente con la povertà dell’esterno. Per me, abituata a pensare alle persone dei popoli Rom come “nomadi”, incontrare una famiglia di profughi, stanziale, in un campo, è stata una sorpresa. Ho conosciuto Vesna lo scorso anno in occasione di un incontro alla Prefettura di Napoli, incontro durante il quale è stato firmato un protocollo tra la Prefettura e le associazioni che si sono incaricate di utilizzare i camper ad esse consegnati per finalità sanitarie e/o educative a favore delle persone Rom. L’estate scorsa, in occasione del Simposio Internazionale di arte contemporanea che curo ormai da tre anni per la cooperativa Occhi Aperti, sono andata a trovare Vesna e la sua famiglia e ho visitato la sua casa. Chiacchierando sono emersi problemi e sogni, aspettative e considerazioni. Mi intristisce pensare che Vesna non veda più né i genitori né i fratelli e le sorelle, tornate al villaggio, e che le sue bambine non conoscano né i nonni né le zie e gli zii. Certo la comunicazione con la famiglia è garantita dai telefoni cellulari, ma il suo sollevare le spalle in un senso di impotenza e ineluttabilità quando io commento quanto deve essere doloroso non poter più relazionarsi con i familiari, mi colpisce profondamente. Chiedo che sogni lei abbia per le sue figlie. Vesna risponde istintivamente che vorrebbe per loro una vita migliore della sua, che studiassero e che potessero avere ciò che desiderano. Ricorda la povertà della sua famiglia e, con orgoglio, afferma che quando le figlie fanno delle richieste lei è in grado di soddisfarle mentre così non accadeva per lei, per le sorelle e per i fratelli quando esprimevano i propri desideri ai genitori. Rimango spiazzata quando, alla richiesta di quali siano i suoi sogni, le sue spalle mi dicono l’ineluttabilità del suo dire prima che questo avvenga: “Non ho sogni per me, solo per le mie figlie”. Mi sento perfettamente a mio agio in questo gruppo di piccole donne che devono crescere e che, istintivamente, formano un cerchio in modo che possiamo parlarci guardandoci in viso. Le teste si girano verso i miei fogli di appunti quando mi trovo in difficoltà a scrivere i nomi in lingua slava, ridono ai miei maldestri tentativi di trascrivere nomi, controllano, correggono. Sento circolare affettività. Per Milena, di 12 anni e attualmente in Belgio con la zia, Vesna sogna un avvenire di avvocata perché, sostiene, “è una chiacchierina”, ma in realtà Milena desidera fare la cantante. Natasa (si legge Natascia, ed “è un nome russo” mi dice con orgoglio la bambina), 7 anni, vorrebbe diventare cantante e batterista e suonare il pianoforte. Irena, 9 anni, desidererebbe suonare il violino, la batteria e il pianoforte mentre Romana, che di anni ne ha 15, vorrebbe diventare parrucchiera. Vesna conosce bene le difficoltà di trovare un lavoro in Italia; mi dice degli sguardi di diffidenza delle persone che la incrociano quando va al mercato, dell’istintivo gesto di protezione delle madri che accostano maggiormente a sé i figli perché (me ne ero scordata nell’elenco degli stereotipi e pregiudizi) “le zingare rubano i bambini”. Chissà se queste bambine, che sognano la musica, conoscono i suoni della gente del paese dal quale la mamma e il papà sono espatriati come profughi di guerra; chissà se conoscono le tradizioni musicali o se l’amore per la musica è arrivato loro attraverso i geni ereditati dalla famiglia. Mi incuriosiscono alcune cose sulle quali domando chiarimenti. Tra queste chiedo se sia vero che i Rom hanno un nome conosciuto solo nel loro ambiente e un altro nome, per i gagi, come vengono chiamati i “non Rom”. Vesna mi fornisce una lunga spiegazione sui nomi. In famiglia veniva chiamata Goca (che si legge Gozza), diminutivo di Gordana, ma il suo vero nome è Vesna. Nome che ha adottato in Italia perché l’altro risultava difficile per noi da pronunciare. Ogni tanto Vesna esplicita le sue presunte incapacità; perché lei, che sa comprendere e parlare correttamente tre lingue, il Serbo, il Romanés e l’Italiano, non sa leggere. Aveva incominciato a frequentare la scuola sul camper (un’ora al giorno) ma ha rinunciato perché gli impegni legati alla cura delle figlie e della casa e la preparazione dei pasti non le hanno consentito di continuare. Ma ho idea che sia una scusa: penso che, in realtà, Vesna non si permetta più, me lo hanno detto le sue spalle e il suo dire, sogni per sé. Io sogno che Vesna impari a leggere e a scrivere, che nessuno più si scosti al suo passaggio e che le sue figlie continuino la tradizione della musica balcanica.
Lascia un Commento