Quello strano sentimento che... / 2 - 'Ci sarà ben qualcosa nella vita per cui valga la pena di perdere tutto'
Origgi Gloria Domenica, 12/12/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2010
“Con discrezione, faccio delle cose pazze. Sono l’unico testimone della mia follia. Quello che l’amore mette a nudo in me è l’energia. Tutto ciò che faccio ha un senso, ma questo senso ha una finalità inafferrabile: esso non è altro che la coscienza della mia forza”. Così Roland Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, cerca di capire, di decifrare l’esperienza amorosa, di rendere quello stato di estasi senza finalità, di transustanziazione di noi stessi in un’altra sostanza che si realizza al solo pensiero dell’amato. L’innamoramento è energia, è un potente richiamo istintivo a quella gioia intravista di uno stadio superiore di perfezione e di completamento di sé. La parola amore traduce tre concetti molto diversi dell’antichità greca: l’eros come desiderio ardente di essere unito alla persona amata, la filia, come sentimento di reciproco rispetto e desiderio di intrattenere con gli altri relazioni morali di cui essere fieri, e infine l’agapè, l’amore come cura, come benessere del dare senza ricevere, come sospensione liberatoria delle relazioni di interesse, di desiderio, di libido: il darsi e basta.
Credo, anzi sono fermamente convinta, che nei suoi tre aspetti fondamentali, spesso intrecciati nelle nostre relazioni con gli altri, l’amore abbia in sé il più grande potenziale rivoluzionario. Non c’è ideologia, non c’è utopia che possa competere con la potenza energetica dell’amore, con quel sentimento intenso del darsi per nulla, a volte anche del gettarsi via, perché, come diceva il bellissimo Sean Connery nel ruolo di sceicco pronto a perdere il suo regno per amore in un vecchio film, Il vento e il leone, “Ci sarà ben qualcosa nella vita per cui valga la pena di perdere tutto”.
L’amore è dare, darsi, è la forza sconvolgente e insieme liberatoria di rompere le relazioni di interesse che condizionano la nostra vita, di fare uscire un’altra natura da quel triste homo oeconomicus costretto a massimizzare costantemente il suo profitto.
Definisce Barthes: “Dispendio: Figura mediante la quale il soggetto amoroso mira e al contempo esita a situare l’amore in un’economia di puro dispendio, di perdita “per niente””. Il salto nel nostro nuovo io sconosciuto ci fa paura, chiediamo all’amato di rassicurarci che qualcosa in cambio ci sarà dato, cerchiamo di riportare la follia del tuffo nell’immensità dell’altro, del fuori di noi, alla relazione più familiare del do ut des. Ma non c’è scambio, non c’è calcolo, una volta che ci siamo gettati la forza si moltiplica da sola, il furore del sentimento produce un’energia infinita e capiamo che la forza è in noi, che non abbiamo bisogno che ci venga data dagli altri.
E quel furore febbrile ci dà occhi nuovi: ci fa guardare la realtà come se fosse per la prima volta: ci fa sentire la vita nei suoi aspetti essenziali, le relazioni sociali nella loro verità, e tutto ci sembra ipocrisia inutile, uso, dominio, egoismo, e ci chiediamo, perché accettiamo tutto questo? Il mondo intorno teme l’innamorato, perché non è dominabile, non può essere comperato, corrotto, semplicemente piegato: brilla di verità e giustizia e vede quello che gli altri non vogliono vedere.
Questo è l’amore, non la seduzione del piacere che ci vendono i giornali, che altro non è che un’ennesima variante di una relazione di dominazione e di potere, né l’amore ossessivo per i figli, che spesso non è altro che un investimento, una speranza che il futuro di noi stessi ci ripaghi delle frustrazioni di quello che non abbiamo saputo realizzare nelle nostre vite, né l’amore c ristiano così com’è predicato dai cattivi predicatori, che cerca ricompense in un qualche al di là. L’amore vero è qui e ora: è la passione, il coraggio di realizzare il nostro immaginario. Uccidere quell’io immaginato, così fiero, energico, perfetto, per “tornare alla realtà” è intollerabile: il giovane Werther preferirà il suicidio a vedere morire la sua immagine di innamorato.
L’amore non ha happy ending, spesso non ha fine, oppure ha vita breve. Come dice Goliarda Sapienza nel suo bellissimo libro L’arte della gioia: “ l’amore non è assoluto. E nemmeno eterno. E non c’è solo amore tra uomo e donna, possibilmente consacrato. Si può amare un uomo, una donna, un albero, e forse anche un asino. Il male, ci dice sempre Goliarda “sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano le parole, mentivano quasi tutte. Ecco cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante e gli animali e poi ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove…”
Ecco cosa dobbiamo fare. Scrostare le parole dai loro significati usati e abusati, dalle convenzioni, dalle storpiature incrostate nella storia della cultura, ripulirle, farle brillare di nuovo della loro potenza originaria. Sbarazziamoci degli altarini dell’amore convenzionale, delle torte nuziali e dei cattivi spumanti, dei visi deturpati dalla chirurgia estetica per sperare ancora di suscitare desiderio. L’amore è la potenza di credere in noi e in ciò che sappiamo immaginare, di credere in relazioni nuove, in un mondo nuovo di cui saremo fieri di essere parte.
Vivo all’estero da tanti anni, guardo l’Italia da lontano, con la nostalgia di un vecchio innamorato. Ed è proprio questo che le rimprovero: di non sapere più amare, di non saper più credere che si può cambiare sé stessi, e che solo da quel cambiamento profondo, da quella rinascita di noi che l’innamoramento sa dare rinascerebbe la fiducia in un mondo migliore.
di Gloria Origgi *
* Filosofa, ricercatrice al CNRS, Institut Nicod, Parigi.
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