VANDANA SHIVA, una lotta in difesa di tutti i viventi - di Eugenia Granito*
Parliamo di BIOETICA - Secondo le multinazionali l’agricoltura meccanizzata, concimi chimici, diserbanti e pesticidi, è indispensabile per per combattere la fame nel mondo. Shiva oppone una visione naturale e non violenta di abitare il mondo
Granito Eugenia Mercoledi, 04/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2012
Nata in una città indiana posta alle pendici dell’Himalaya, Vandana Shiva è cresciuta immersa in una natura che, all’epoca della sua infanzia, negli anni Cinquanta, era ancora incontaminata, con i suoi ruscelli e le ricche foreste, indispensabili per la sopravvivenza delle popolazioni locali. L’infanzia himalayana, come lei stessa scrive in una nota autobiografica, e l’amore per la natura trasmessole dai genitori - il padre funzionario forestale e la madre, gandhiana, che, lasciato l’insegnamento, si era fatta contadina - l’hanno profondamente segnata. Dopo la laurea in fisica e un dottorato di ricerca presso un’università canadese, lo stravolgimento della natura, provocato dalle multinazionali con l’introduzione di nuove tecniche agricole e dell’allevamento intensivo degli animali, l’ha indotta ad abbandonare questo ordine di studi per dedicarsi alla difesa dell’ambiente e dei diritti degli ultimi, in particolare dei contadini indiani. Nell’economia globalizzata questi hanno perduto ogni spazio: le multinazionali li hanno espropriati delle loro risorse, delle terre da cui traevano il sostentamento, stravolgendone l’equilibrio ecologico, dell’acqua, che da bene comune, indispensabile alla vita, è diventata proprietà privata di chi dispone di capitali, che la usa e l’inquina senza tener conto dei bisogni delle popolazioni locali. È accaduto in India, come nelle foreste tropicali del Sud America, come in Africa. Le multinazionali hanno diffuso il mito secondo cui l’agricoltura meccanizzata, che fa ampio ricorso a concimi chimici, diserbanti e pesticidi, sia indispensabile per aumentare la produzione del cibo e per combattere la fame nel mondo. In realtà - scrive Shiva - “l’economia industriale chiama crescita quello che è una forma di furto ai danni delle popolazioni e della natura”. Essa non fa altro che inquinare riducendo progressivamente la fertilità del suolo, oltre a causare un forte dispendio di combustibili fossili e l’impoverimento delle falde idriche sotterranee, per il maggior consumo di acqua che richiede. A pagare non sono di certo le multinazionali, che si spostano altrove appena la produttività del terreno incomincia a calare, bensì le popolazioni locali, ridotte alla fame dalla diffusione delle monocolture destinate all’esportazione, che sottraggono loro la terra necessaria per produrre il proprio cibo. Le multinazionali hanno messo le mani non solo sulla terra, ma anche sui saperi tradizionali dei contadini, appropriandosi delle sementi, che questi avevano selezionato con un lavoro secolare, e brevettandole come frutto delle proprie ricerche, acquisendo il diritto esclusivo sul prodotto. Shiva menziona vari casi di biopirateria, come quello del riso basmati, una qualità di particolare pregio coltivata in India da secoli, su cui la società texana Rice Tec ha ottenuto il brevetto, oppure il caso della Monsanto, una multinazionale che è riuscita a brevettare una qualità di grano indiano anch’esso molto pregiato e, attraverso tecniche di bioingegneria, ne ha reso sterili i semi per impedirne la riproduzione ed averne così il monopolio. I contadini sono stati espropriati delle sementi, indispensabili per produrre il loro cibo: “in India - scrive Shiva - nei periodi di carestia, la gente preferiva morire di fame piuttosto che consumare i semi e per gli antichi testi sanscriti il lasciare che essi si estinguano è considerato il peccato più grave”.
L’agricoltura meccanizzata, nelle zone in cui si è diffusa, ostacola la sopravvivenza dei piccoli coltivatori, che non sono in grado di reggere la concorrenza per l’aumento dei costi di produzione (acquisto di mezzi tecnici, di fertilizzanti chimici, ecc.) ed il crollo dei prezzi di vendita dei prodotti. Di qui l’alto numero di suicidi verificatisi tra loro.
Ai danni provocati dall’economia globalizzata, che ha denunciato e continua a denunciare in una serie di scritti, molti dei quali tradotti in italiano, Shiva contrappone l’agricoltura indiana tradizionale, rispettosa dell’ambiente e di ogni forma di vita, che opera una felice integrazione tra coltivazione della terra e allevamento del bestiame. Non è un caso che in India le vacche siano considerate sacre: forniscono non solo il latte, ma anche il fertilizzante organico per i campi ed il combustibile. La domanda di energia dei villaggi indiani è soddisfatta per due terzi con l’uso dello sterco di mucca. I bovini maschi sono i compagni di lavoro dei contadini, che non potrebbero permettersi l’acquisto di trattori e di altri macchinari agricoli. Questi animali vivono liberi, non segregati negli allevamenti intensivi, e non entrano in competizione con l’uomo per il cibo, in quanto si nutrono degli scarti della produzione agricola, che incrementano con il loro concime. È questo il modello di produzione che la Shiva difende e che rischia di essere soffocato dal diffondersi dell’economia globalizzata. In una nota autobiografica scrive che il suo passaggio dallo studio della fisica all’ecologia è stato motivato in larga misura dalla scomparsa dei torrenti himalayani in cui giocava da bambina, dovuta alla distruzione delle foreste, causa di frane, di alluvioni e di impoverimento delle popolazioni locali, un tempo autosufficienti per la produzione alimentare ed ora costrette ad importare il cibo per l’esaurirsi delle risorse idriche. Gli unici in grado di opporsi a questa “economia da Far West”, a suo avviso, sono i movimenti di protesta locali che si avvalgono dei metodi non-violenti gandhiani. È il caso del Chipko (dal nome di un leggendario poeta indiano), ispirato da due discepole di Gandhi, sorto negli anni Settanta per la difesa delle foreste himalayane, i cui volontari sono riusciti ad impedire l’abbattimento degli alberi abbracciandoli all’arrivo dei boscaioli. La stessa Shiva nel 1991 ha fondato il movimento Navdanya (nove semi), che promuove l’agricoltura biologica e ha istituito banche comunitarie delle sementi. Le lotte condotte da questi movimenti hanno conseguito più di una vittoria: dopo battaglie legali durate anni la Rice Tec e la Monsanto si sono viste revocare i brevetti sul riso e sul grano e la Coca Cola è stata costretta a chiudere uno stabilimento che sfruttava oltre ogni limite le risorse idriche di un piccolo villaggio del Kerala ed inquinava. In queste lotte le donne sono sempre state in prima fila, come hanno avuto per secoli un ruolo di primo piano nella conduzione dell’agricoltura tradizionale indiana. Ad avviso di Vandana, l’unica garanzia per il futuro è il diffondersi di un femminismo ecologista in grado di opporsi all’ideologia patriarcale, eurocentrica ed antropocentrica che tratta le donne, le altre culture e le altre specie come oggetti da sfruttare. Alla logica di potere della globalizzazione contrappone l’ideale di una “democrazia della comunità terrena”, secondo la quale “tutte le specie, tutti gli esseri umani e tutte le culture possiedono un valore intrinseco”, e ciò perché “tutti gli esseri viventi sono soggetti dotati di intelligenza” e “non possono essere ridotti al ruolo di proprietà privata, di oggetti manipolabili, di materie prime da sfruttare”. Di qui il divieto morale di invadere lo spazio ecologico degli altri esseri umani e degli altri viventi e di trattarli con crudeltà e violenza. Quello della Shiva è un ideale di democrazia cosmica che investe sia i rapporti interumani che quelli con le altre specie: tutti gli esseri viventi sono membri della comune famiglia terrena ed hanno, per il fatto stesso di essere nati, il diritto naturale a ciò che occorre per soddisfare i propri bisogni: al cibo, all’acqua, ad un ambiente adatto a condurre una vita dignitosa. Questo ideale di democrazia universale si ispira alla tradizione filosofica indiana: Vandana Shiva cita in proposito un antico testo, la Isho Upanishad, secondo il quale “l’universo è stato creato dal Potere Supremo per il bene di tutta la creazione. Ogni singola forma di vita deve pertanto imparare a gioire dei suoi doni all’interno di un sistema che correla tutti gli esseri viventi. A nessuna specie è consentito di ledere i diritti altrui”.
La democrazia della comunità terrena non può essere realizzata dai governi dei vari Stati, troppo collusi con i poteri forti dell’economia globalizzata, bensì attraverso forme di autogoverno locale. Le singole comunità debbono avere pieni poteri decisionali in merito all’uso delle risorse naturali, all’ambiente e al benessere dei loro membri. Solo così la democrazia può tutelare il valore primario da salvaguardare: la vita di ogni essere, anche del più piccolo. “Tutti gli esseri sensibili, compreso il più piccolo insetto, si prendono cura di sé. Tutti hanno il diritto di non soffrire e di essere felici. Auspico pertanto che ci dimostriamo capaci di amore e compassione verso tutti”, così il Dalai Lama nel messaggio inviato a Vandana Shiva per ringraziarla del discorso tenuto in suo onore in occasione del suo sessantesimo compleanno.
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