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Uno sguardo antropologico

Uno sguardo antropologico

Cibo. Variazioni sul tema/2 - Tra riti collettivi e delizie private, il mangiare come costante umana che va oltre il valore del nutrimento. Una conversazione con l’antropologa e femminista Gioia Di Cristofaro Longo

Bartolini Tiziana Domenica, 17/11/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2013

“Il cibo è un’espressione primaria di esperienza degli esseri umani ed è un’espressione fondamentale perché serve a riprodurre le energie vitali ma anche perché ha una valenza simbolica fondamentale”. L’opinione di Gioia Di Cristofaro Longo ha una duplice validità: da una parte c’è la spiegazione ‘tecnica’ della Docente di Antropologia Culturale in quanto Ordinaria presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, dall’altra c’è il filtro scrupoloso della realtà osservata e spiegata secondo l’ottica della femminista. Infatti Longo ha costantemente misurato il suo percorso professionale con il metro di valutazione di un femminismo mai banale o scontato. “È interessante osservare la continua evoluzione delle modalità di elaborazione del cibo. Il cibo tradizionale è importantissimo perché è una forma, talvolta uno strumento, di identità culturale anche molto forte. Questo lo si vede chiaramente, ad esempio, nelle ricorrenze o nelle feste tradizionali che scandiscono anche i tempi e i riti collettivi - pensiamo alla mietitura o alla vendemmia - ma anche i momenti di vita familiare. Accanto a questi aspetti, che tendono a confermare e a non cambiare, la ricerca della varietà del cibo. Nella nostra cultura occidentale osserviamo una continua invenzione ed evoluzione del modo di cucinare e di elaborare i cibi, testimonianza di questo bisogno sono le tantissime pubblicazioni di ricette (riviste o libri) esposte in qualsiasi edicola così come le rubriche dedicate alla cucina in televisione o addirittura programmi televisivi basati esclusivamente sul cibo e sulla cucina”. Ecco, questo aspetto del cucinare mostrato in tv sembra dilagare e forse è anche un poco eccessivo. Ma qual è la regione? “Credo che la grande attenzione delle tv al cibo e alla dimensione gastronomica sia riconducibile alla necessità di rispondere sempre a questo bisogno di innovazione, di originalità. Nella nostra cultura c’è anche molto bisogno di creatività e forse la creatività nel cibo è la forma più semplice e alla portata di tutti”. Ma la televisione è l’apoteosi della solitudine, mentre il mangiare ‘chiama la compagnia’…. “In effetti questo è anche un importante valore simbolico del cibo, quello di accompagnare lo stare insieme sia in famiglia che con gli amici o con gruppi più ampi. Non c’è momento della vita sociale che non sia anche sottolineato dalla consumazione del cibo insieme, pensiamo ai pranzi di lavoro che non solo non sono una perdita di tempo ma, al contrario, aiutano moltissimo a stabilire rapporti e a conoscersi meglio. E più è alto il livello e maggiore è la ricerca di prelibatezza e originalità. Ricapitolando, quindi, osservo due opposte tendenze di essere in relazione al cibo: una tradizionale e una che ama la varietà. Sono posizioni che vanno a sottolineare momenti diversi e funzioni diverse dello stare insieme degli esseri umani”. Le donne, in tutto questo, dove le mette? “Intanto osserviamo che grazie alle donne si tramandano intorno al cibo valori, tradizioni, saperi. Poi osserviamo anche che la società ha strumentalizzato questi saperi attribuendo alle donne in maniera esclusiva il compito di cucinare, chiudendole in un ruolo rigido e prestabilito. Quindi, compresse nella fatica della ruotine quotidiana, le donne hanno praticamente perduto il fascino della creatività”. Infatti le donne cucinano ‘per ruolo’ e gli uomini raggiungono la notorietà come grandi chef! “Certo, perché quando si innalza il livello i ruoli cambiano e diventano maschili. Anche se va riconosciuto che questi aspetti si stanno correggendo, permane una tendenza a strumentalizzare compiti, capacità e competenze delle donne legandole al ruolo piuttosto che alla creatività o alla professionalità. L’operazione è quella di distorcere o ridurre la portata e il riconoscimento sociale di quello che fanno le donne e questo è un aspetto odioso. Tra l’altro, a proposito di creatività, pensiamo ai livelli di capacità che le donne da sempre sanno esprimere riuscendo a cucinare con pochi soldi, nei momenti di carestia o di irreperibilità di ingredienti minimi, come avviene durante le guerre”. Già, un’arte di far quadrare i conti la cui utilità - in famiglia e nella società - è inversamente proporzionale al suo riconoscimento pubblico e privato.

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