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Un’altra idea di procreazione

Un’altra idea di procreazione

Parliamo di bioetica - L’enfasi di sorveglianza in gravidanza è ridondante quanto dispendiosa, soprattutto perché rivolta a donne sane

Morano Sandra Venerdi, 17/09/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2010

Dalla specificità femminile, e dal corpo che le compete, dipende la continuazione della vita sul pianeta, e nascono tutti i tentativi di controllo. Da questa dipende non solo la diversità femminile, ma la necessità di un diverso ordine nella società, la cui civiltà si misura attraverso il grado di attenzione alla procreazione, e quindi all’accoglienza. Procreazione, famiglia, bambini: siamo ancora troppo vicini a quando erano una costrizione, spesso l’unico destino, e oggi ciascuna donna deve arrivare a desiderare la maternità per potercisi misurare individualmente. Tra la vecchia maternità come ruolo e quella per scelta, che oggi sembra così diffusa (e così condannabile), nel mezzo non c’è ancora - sebbene da tempo auspicato - quel “valore sociale” che permetterebbe a questa specificità di esprimere il suo formidabile potenziale.

Negli ultimi decenni, abbandonata la retorica della mistica della maternità, che tanto ha condizionato la storia del corpo femminile, l’attenzione si è spostata prima sulle lotte per il controllo della fertilità, e successivamente, al passo con le scoperte scientifiche, sulla cura della infertilità e sui problemi etico politici della regolamentazione della riproduzione assistita. Per questa via, a partire dall’approvazione della Legge 194 e della sua difesa, si è polarizzata l’attenzione (e l’equazione) su progresso scientifico e riproduzione, e l’insieme degli obbiettivi racchiusi nell’espressione fortemente anticipatrice “valore sociale”, è passato in secondo piano.

Nel frattempo, a soli sessanta anni dall’ospedalizzazione del parto, sembra si sia verificata una mutazione antropologica. Oggi donne allontanate dalle funzioni elementari e primordiali del proprio corpo, rese fragili dal confronto con la tecnologia, costrette a ridurre/mimetizzare sempre più spazi e tempi delle trasformazioni della gravidanza e della maternità (astensione dal lavoro, riduzione dell’allattamento, ecc..), procrastinano e riducono all’essenziale la funzione riproduttiva, una parentesi un po’ anomala, sicuramente scomoda nei percorsi ad ostacoli delle realtà cittadine o metropolitane.

Quali sono le condizioni della nascita oggi in Italia? L’ultimo rapporto ISTAT denuncia, oltre che una importante flessione della natalità, una sproporzionata attenzione alla gravidanza e al (dolore del) parto rispetto alla voragine del dopo. All’enfasi di una sorveglianza in gravidanza, ridondante quanto dispendiosa, soprattutto perché rivolta a donne sane, non corrisponde mediamente alcun sostegno al ritorno a casa della puerpera, e il governo della sua salute, affidato ai servizi territoriali, sta aspettando ancora la realizzazione del P.O.M.I. (Progetto Obiettivo Materno Infantile) su scala nazionale.

La maternità: paradossalmente la maternità senza aggettivi, che interessa la maggior parte delle donne, non solo il 15% delle infertili né il 7% di quelle che sono costrette ad interrompere la gravidanza, oggi è fortemente in difficoltà, e non solo riguardo al decremento. Lo statistico Roberto Volpi (La fine della famiglia,la rivoluzione di cui non ci siamo accorti, Mondadori, 2007) parla di “maternità che scoraggia la maternità”, e lega il fenomeno alla medicalizzazione .

“Psicologicamente, la donna che arriva oggi alla soglia del parto è, per quanto abbia un’età media decisamente superiore, più fragile, più scoperta, insicura di quanto non lo fosse sua madre. Confida nella medicina ben più che in se stessa. L’accerchiamento medico-sanitario della maternità non aiuta la donna ad affrontare il parto nella piena coscienza di sé, nella convinzione di essere davvero pronta.”

La regione Toscana, una delle più attente al percorso nascita, è all’avanguardia tanto nei servizi di tutela della maternità (numero di visite in gravidanza, numero di ecografie, offerta di diagnosi prenatale) quanto nel processo di denatalità. I presidi che generalmente si crede possano aiutarla, per esempio a superare la paura e il dolore, come l’offerta generalizzata della partoanalgesia o del TC su richiesta, non risultano, contrariamente a quanto si crede, la soluzione, e nemmeno la scelta preferenziale. Politiche ostetriche e perinatali come questa, che potenziano fortemente un percorso di medicalizzazione in gravidanza e massimamente durante il ricovero ospedaliero, rendono la donna sempre più dipendente: “Per voler pigliare - e non del tutto disinteressatamente - il parto della donna e caricarselo sulle spalle, la medicina ha finito per disabituarla al parto più di quanto non abbia fatto il calo dei figli, e dunque dei parti..”(Roberto Volpi).

Nonostante la realizzazione, nel SSN, di alcuni luoghi che facilitano una attenzione globale al fenomeno, la visione imperante - sostenuta largamente dalle Società Scientifiche Ostetrico Perinatali e veicolata dai media - costruisce quotidianamente dipendenza e fragilità riproduttiva nella popolazione femminile.

Procreare resta comunque un lusso, e non solo dal punto di vista economico. E questo a fronte del comportamento della popolazione immigrata, che, meno garantita ma forse più fiduciosa nel futuro, assicura una maggiore natalità. La prima fotografia dei famigerati “bamboccioni” comincia proprio da qui, dalla fragilità di coppie che procreano sempre più tardi, al massimo un figlio, e viceversa si separano molto, e presto, non riuscendo a reggere la conflittualità e le difficoltà, anche economiche, della responsabilità familiare. In questo scenario non c’è grande enfasi per l’infanzia. Tutti i condizionamenti intorno alla sicurezza della gravidanza pletoricamente monitorata e misurata, tutti i clamori sulla necessità di superspecialisti al parto (normale) da svolgersi preferibilmente in sale operatorie, crollano vertiginosamente nella solitudine degli ambienti di vita, in cui la parte più difficile è ancora da iniziare: accogliere e far crescere questi neonati nel nucleo affettivo e sociale di riferimento. E’ vero. I bambini sono un problema. Lo sono quando si ammalano per una banale influenza, e via via perché per alcuni anni mettono a dura prova la motivazione del progetto nato intorno al desiderio di un figlio, naturale o adottivo che sia. Intorno la vita sembra scorrere come sempre: ma, a parte alcune conquiste contrattuali per chi ha un lavoro garantito, quali nuove proposte, quali politiche? Paradossalmente oggi più di ieri, la donna che mette al mondo un figlio è socialmente in compagnia della sola sua scelta, e questo non perché non esistano una buona legge di tutela della lavoratrice madre, o dei servizi pubblici, dai consultori ai nidi (sempre più costosi, ma comunque diffusi perlopiù laddove le istituzioni funzionano). In altri paesi, dove forse non si vive meglio che da noi, come per esempio la Gran Bretagna, si redigono periodicamente documenti che ci consola leggere, e che riguardano le scelte della maternità, l’interesse per la soddisfazione rispetto ai servizi offerti, documenti che nascono dalla consultazione postale di migliaia di donne e di famiglie alle prese con questa esperienza, e ne tengono conto.

Questi argomenti fanno fatica ad entrare nelle officine dei programmi elettorali o nei pensatoi delle agenzie sanitarie: ma non sembrano nemmeno affollare le agende di quegli spazi professionali o politico gestionali che le donne in questi ultimi decenni hanno faticosamente conquistato.

In un malinteso rapporto con il progresso scientifico, con la potenzialità procreativa come limite nella corsa alle “pari opportunità” nella valorizzazione dei talenti individuali, sembra stia prevalendo la tendenza a “dimenticare” quella specificità proprio rispetto all’uso del corpo (femminile) competente alla riproduzione. Adrienne Rich racconta che negli anni cinquanta lei, una donna colta e sensibile, fu condizionata al punto da mettere il proprio corpo nelle mani di tecnici per partorire : “addormentatemi, e che se ne occupi il medico”…Oggi, a distanza di decenni, nelle corsie delle Maternità si incontrano sempre più donne che sorridendo affermano di essersi sottoposte al taglio cesareo per scelta: donne mediamente istruite, capaci peraltro di progettare complessi edifici in qualità di ingegnere, giudicare pluriomicidi in qualità di magistrate, praticare sport estremi per hobby o per professione, ecc… Nel nome di questo processo di decorporeizzazione di cui parla Barbara Duden (I geni in testa e il feto in grembo, Bollati Boringhieri, 2006) si identifica il lavoro del travaglio con il solo dolore, si considera inutile il fenomeno del parto al punto da considerarlo una perdita di tempo (per il taglio cesareo basta mezz’ora) e soprattutto si assume che questo sia solo una modalità, oramai superata da più moderne varianti .

Abbiamo già detto, a questo proposito, delle responsabilità dei professionisti della salute materno-fetale e delle Società Scientifiche (che oggi gli si sta ferocemente ritorcendo contro attraverso i contenziosi medico-legali). Ma cosa dire soprattutto alle donne che sempre più, in numero molto superiore agli uomini , “risanano e ritessono le vite di donne e bambini”, avendo con la loro tenacia e superiorità realizzato l’auspicio che la Rich esprimeva trent’anni fa? Ora tocca a loro. Senza alibi, toccherà sempre più a loro, con scienza, tecnologia e cultura, curare e parlare alle loro simili. Loro non avranno, come è toccato finora alle Ostetriche, nell’impari “mezzadria maieutica” che così appassionatamente lamenta la Duden, un professionista Medico a cui rispondere delle proprie azioni e decisioni, se vorranno facilitare o assecondare processi che conoscono intimamente e possono comprendere. Le professioniste sul campo sono loro, già ora in massima parte, e lo saranno sempre più. Conoscono le regole del gioco, e per la scelta della professione più pertinente e controversa di aiuto per le donne hanno condotto fino in fondo una dura lotta. Sono forti della loro bravura, ma ancora a disagio nei luoghi delle cure, che intanto sono cambiati poco. Rappresentano un formidabile agente di cambiamento per le donne che a loro si affidano, e, soprattutto, non sono sole.

Se cinquanta anni fa, alle spalle distruzione e morte, le donne del dopoguerra furono in grado, senza strumenti, con tutto da ricostruire (compresa una idea di procreazione i cui fondamenti bio-endocrinologici finalmente venivano alla luce), di parlare di maternità come valore sociale, noi oggi sappiamo che è da qui che dobbiamo ricominciare.

Dalla storia, che è soprattutto storia delle idee, dalla lunga storia del corpo femminile, capace di sanare e ritessere vite di donne e bambini con intelligenza e passione.



Sandra Morano*

* Ginecologa Ricercatrice, Dipartimento di ginecologia ed Ostetricia, Università degli studi Genova



Istituto Italiano di Bioetica

www.istitutobioetica.org



(17 settembre 2010)



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