L’assassinio di una donna per mano dell’ex marito, avvenuto recentemente ad Albenga, ha richiamato più particolarmente l’attenzione dei media nazionali. Difatti ad essere resi pubblici non sono state solo le vicende di vita della vittima, Loredana Colucci, le modalità del femminicidio o le circostanze che esso si sia consumato sotto gli occhi della figlia minorenne, ma anche le polemiche conseguenti alla notizia che per ben tre volte un magistrato aveva rifiutato gli arresti domiciliari richiesti dai pubblici ministeri per reiterati episodi di stalking e per un tentato omicidio perpetrato l’anno precedente ai danni delle donna. Peraltro già per altri femminicidi si erano sollevati dubbi sui provvedimenti giudiziari non consoni a quel che le vittime richiedevano alla giustizia attraverso molteplici denunce e reiterate segnalazioni agli organi competenti, ma le dispute in questo caso sono state seguite con più interesse dall’opinione pubblica.
L’uccisione di Loredana Colucci ha portato difatti con sé lo strascico di conflitti interni alla stessa magistratura, testimoniati tra l’altro da dichiarazioni più che evidenti al riguardo. Ad esempio il procuratore capo di Savona, Francantonio Granero, intervistato sul femminicidio di Albenga, ha asserito che: “quando uno fa il magistrato, sia che si occupi di penale che di civile, deve dimostrare di avere i coglioni. Quando invece fa vedere che lui non c'entra nulla e cerca di scaricare la responsabilità sugli altri, a me non piace"”. Questa presa di posizione fa indubbiamente riferimento alla dichiarazione dell’inquirente, Filippo Maffeo, che ha rifiutato gli arresti domiciliari per l’ex marito della vittima: “Dico che il giudice dell’udienza preliminare si trova ad affrontare un caso di cui sa i dettagli quella mattina stessa”. Questi contrasti tra magistrati, amplificati dalla cassa di risonanza mediatica, appalesano in maniera evidente l’opportunità di formare i giudici sulla materia della violenza di genere, di modo che in sua presenza essi siano in grado di ben valutare i comportamenti che si configurano come correlate ipotesi di reato.
Di qui il passo a richiedere l’istituzione di tribunali speciali per tali crimini è altrettanto spedito, solo che si faccia l’opportuna comparazione con i Paesi ove tali organismi giudiziari siano presenti. Si prenda quale confronto quanto è previsto in Spagna, ossia i Juzgados de Violencia sobre la Mujer, dedicati esclusivamente ai reati riconducibili alla violenza sessuata. Nati nel 2003, grazie alla Ley Organica, che negli intenti del governo Zapatero doveva offrire alle donne spagnole un intervento normativo volto a porre un freno a tale fenomeno, questi tribunali hanno come caratteristiche una presenza territoriale radicata ed una specificità della propria sfera d’azione, ossia il contrasto ai reati di violenza contro le donne. Ciò comporta la rapidità delle decisioni al loro riguardo, a cui consegue un maggiore numero di denunce ed una minore incidenza del fenomeno del loro ritiro. Si deve inoltre alla Ley Organica se in Spagna una donna che denuncia una situazione di violenza sia messa al sicuro in meno di 72 ore e se le prime aggressioni vengano punite nel 70% dei casi” (Immaculata Montalban, magistrata e presidente dell’Osservatorio contro la violenza domestica e di genere). La stessa giudice, intervistata nel 2013, rimarca come nell’anno precedente le vittime di femminicidio siano scese al numero di 53, il dato più basso se raffrontato con gli altri presenti nel periodo antecedente alla nuova normativa. Appare più che evidente come, avendo la Ley Organica un approccio multidisciplinare al contrasto della violenza contro le donne, quante di loro segnalino di esserne vittima ricevano assistenza da personale specificamente formato al proposito e vengano seguite da operatori pronti ad affiancarle in un periodo particolarmente sofferente di vita, a causa dei problemi economici e d affettivi che da esso discendono.
Proprio quest’ultima nota caratteristica riporta drammaticamente al femminicidio di Albenga ed alla circostanza per la quale fossero invece i colleghi di lavoro ad accompagnare a casa Loredana Colucci al termine dei suoi turni di lavoro, per proteggerne l’incolumità. Probabilmente sarebbe stato necessario allontanare la donna da quella casa ed allocarla in un alloggio finalizzato ad accogliere le vittime di violenza con i loro figli. Probabilmente sarebbe stato opportuno consentirle una maggiore flessibilità d’orario o ancora meglio il suo trasferimento in una sede lavorativa sconosciuta al suo ex marito. Probabilmente sarebbe stato idoneo prestare un’attenzione particolare alle sue denunce, consentendole di non ripeterle nel tempo una volta per tutte. Le novità normative previste dalla legge sul femminicidio, la 113/2013, tra cui l’irrevocabilità della denuncia, l’inasprimento delle pene ed il gratuito patrocinio, necessitano di essere sostanziate da una specifica assistenza alle vittime, da una preparazione più puntuale degli operatori e, soprattutto, da una migliore prevenzione del fenomeno della violenza di genere. Prevenzione prevista sulla carta, ma che nella realtà sembra non avere portato ai risultati sperati.
Questa è l’aspettativa non solo delle donne che già si trovano ad affrontare nella propria vita la tragicità di un presente fatto di sopraffazione e di dolore, ma anche di chi sono privi di strumenti per aiutarle. Poco importa che sia un magistrato che chiede di essere formato o un operatore di un centro-antiviolenza che sta per chiudere per mancanza di fondi, o di un rappresentante dell’ordine pubblico che non sa dove consentire il rifugio ad una donna picchiata a sangue dal proprio convivente. Rivela invece tanto la volontà di fornire a tutti questi soggetti gli strumenti idonei a mettere in campo gli opportuni interventi a difesa delle vittime, perché, si sa, le norme da sole, senza adeguati mezzi e tempestive sanzioni, sono solo macchie nere su fogli bianchi. Fogli il cui colore uno Stato, all’altezza del proprio ruolo, avrebbe dovuto evitare che si macchiasse del sangue di Loredana Colucci e delle tante, troppe, vittime di femminicidi.
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