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Una speranza incastonata nel degrado

Una speranza incastonata nel degrado

- Una petizione per far riaprire il centro antiviolenza di Tor Bella Monaca. Esperienza pilota in uno dei quartieri più degradati della Capitale. Intervista a Stefania Catallo, fondatrice del CESPP

Emanuela Irace Giovedi, 26/06/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2014

 Sono le nuove resistenti. Combattono in maniera trasversale. Psicologhe e operatrici sociali. Avvocate e antropologhe. Sociologhe e drammaturghe. Tutte volontarie al CESPP, Centro di Supporto Psicologico Popolare di Tor Bella Monaca. Un quartiere fuori Raccordo, a sud est della Capitale. Fanno politica con le armi della cultura e cercano solidarietà tra donne di sinistra. Lontane dalle tribù di salotti che orientano campagne elettorali, si ritrovano sole. Periferiche. E dal mese di gennaio anche sfrattate. Conseguenza di una gerarchia sociale che aumenta il divario proprio quando il dolore attraversa corpo e mente delle donne. Quando il malessere somatizza e diventa malattia ci vogliono soldi. A Tor Bella Monaca chi ha problemi non può contare su una rete familiare forte, capace di pagare psichiatra, psicologo o coach-life. E rivolgersi al servizio pubblico significa appuntamenti diluiti nel tempo, mancanza di riservatezza e setting non strutturato. Stefania Catallo non abbassa la guardia e continua a lottare. Il Centro va riaperto. Intanto ha scritto un libro e messo in scena l’esperienza di tre anni. Un successo teatrale condiviso con gli amici di sempre e con i nuovi 51mila firmatari della petizione a Ignazio Marino. Obiettivo salvare il centro anti violenza di Tor Bella Monaca. Una speranza incastonata nel degrado. Stefania Catallo ha i capelli biondi raccolti a crocchia. Sorriso aperto e occhi di ragazza. La incontro di fronte al palazzo della Fao. Ci sediamo a terra, sui gradini terrazzati dell’antica Roma, quella del mitico Ratto delle Sabine, poi diventato stadio, famoso per le corse delle bighe: “Tempio e casa”, scriveva Cicerone, “luogo di riunione e realizzazione dei desideri”. Speriamo porti fortuna. Siamo al Circo Massimo. Ciuffi d’erba e cartacce dappertutto.



Che incarico ricopri nel Centro?

Sono fondatrice e Presidente.



Per quanto tempo è stato in funzione e quante donne vi sono transitate?

Il Centro è stato aperto da maggio 2011 a gennaio 2014. Sono transitate circa 700/800 donne. Una cifra ragguardevole considerato che nel quartiere vivono 60mila persone. Le donne che hanno voluto intraprendere un percorso individuale sono state tra il 10 e il 20%.



Un presidio sanitario che ha rappresentato anche una novità culturale per il quartiere…

Si, perché parallelamente all’attività di ascolto abbiamo inaugurato una scuola teatrale ed altri corsi dedicati ad utenti e non. Il Centro oltre a svolgere gratuitamente attività di psicologia e counselling a livello sociale è diventato un polo aggregativo per il quartiere. Ma soprattutto ha svolto una funzione supplente rispetto alle istituzioni.



In che senso?

Nel senso elaborativo e pratico. Stiamo portando avanti un modello di Centro Antiviolenza diverso da quelli tradizionali. È il primo progetto italiano di questo genere. Ci stiamo occupando anche del reinserimento lavorativo e sociale delle nostre donne. La guarigione passa anche attraverso l’autonomia economica e professionale.



Che tipo di problemi avete dovuto affrontare?


Le istituzioni della precedente Giunta ci hanno totalmente ignorato. Quelle attuali ci tollerano ma in realtà non si interessano a noi né tantomeno ci conoscono. Giudicano basandosi soltanto su notizie parziali e insufficienti raccolte qua e là.



Siete state accolte bene dal quartiere?

Assolutamente si. La solidarietà popolare è stata immensa e di grande aiuto. Oltre alle psicologhe abbiamo un avvocato penalista in patrocinio gratuito e un gruppo di volontarie che in caso di necessità accompagna le donne vittime di violenza dalle forze dell’ordine o al pronto soccorso.



Quali sofferenze hai riscontrato tra le donne che si sono rivolte al centro?

Si tratta per la maggior parte di donne abusate dai propri compagni a livello soprattutto umano e psicologico. Oltre che fisico. Molte provenivano da famiglie disfunzionali. Alcuni casi di mobbing. Tanta sofferenza per vivere a fianco di uomini anaffettivi e violenti. Tanta solitudine e paura. Difficoltà a reagire. Una educazione ai sentimenti, se si può dire così, totalmente assente.



L'esperienza delle donne transitate dal centro è diventato un libro e una pièce teatrale, come sei riuscita? Non hai avuto paura di farti in qualche modo sopraffare da tanta sofferenza?

Ho realizzato tutto ciò finanziandomi da sola e a volte ci ho anche rimesso di tasca mia. Il dolore mi ha pervaso, ma la speranza di poter essere di aiuto per intraprendere una vita nuova mi ha dato la forza di andare avanti.



Da qualche mese il centro Antiviolenza è chiuso. Come giudichi il comportamento del sindaco?

Assolutamente inqualificabile. Considero la sua campagna elettorale manipolatoria nei confronti delle elettrici in quanto prometteva una Roma a misura di donna, cosa che nel nostro caso non si e assolutamente verificata.



Le associazioni romane di donne sono state solidali con te e si sono battute contro la decisione di sfrattarvi?


Alcune si. Altre ci hanno girato le spalle adducendo motivi di appartenenza politica. Emblematico il caso in cui mi è stato chiesto di eliminare dalla petizione a sostegno della nostra causa - aperta su change.org - la firma di Isabella Rauti, Consigliera per il Ministero degli Interni alle politiche contro il femminicidio perché invisa politicamente a una grossa associazione nazionale. Un comportamento enormemente scorretto perché la petizione è prima di tutto politicamente trasversale eppoi perché si chiedeva di estromettere una personalità istituzionale, quindi si voleva agire a livello personale e non di tutela della donna e noi ci siamo ovviamente rifiutate di farlo alienandoci una percentuale di firme. A parte questo intoppo la partecipazione e il sostegno sono stati grandi.



È vero che per non abbandonare le donne dal percorso intrapreso molte psicologhe che collaborano con te e tu stessa siete state costrette a proseguire gli incontri di psicoterapia addirittura nelle vostre case?


Purtroppo sì.



Cosa vorresti chiedere al sindaco Marino?

Vorrei chiedere di riceverci e di ascoltarci e soprattutto di conoscerci da vicino e di parlare con le donne del quartiere. Solo così avrà modo di valutare e di capire quello che quasi 52mila persone, firmatarie della petizione hanno già chiaro.



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