Aura Marina Arriola - Per anni esule in Italia dopo essere stata dirigente politica della resistenza armata guatemalteca, non era femminista perchè aveva fatto politica "come un uomo", ma non aveva una lettura 'neutra' della realtà
Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2007
Vale la pena ogni tanto di riprendere il filo della memoria e, per esempio, riandare ai decenni precedenti il 1989: forse si capisce meglio, come donne, il mondo di oggi, anche sul piano internazionale.
Non è facilissimo ricordare che negli anni '70/'80 del secolo scorso l'America latina era una specie di lager, con quasi tutti i paesi del continente sotto governi militari. Si parlava molto di "imperialismo delle multinazionali" e della responsabilità indiretta che questo fattore assumeva
nelle repressioni; da parte sua la sinistra sosteneva le "lotte di liberazione dei popoli"per la loro "autodeterminazione". Espressioni quasi tutte in disuso: gli anni trasformano le situazioni. Infatti, non si è più parlato delle multinazionali perché già allora avevano vinto e la globalizzazione ora lo dimostra; anche le lotte popolari – compresa l'ultima, quella del Chapas, che varcò la soglia dei metodi tradizionali ricorrendo all'uso innovativo delle nuove tecnologie e rifacendosi a una
concezione pacifista - sono confluite nell'accettazione di governi senza più divise militari, di elezioni non più condizionate e del "libero" gioco democratico.
Sono stata molto contenta di avere rievocato queste situazioni, con passione intellettuale ma senza rimpianti, con l'amica guatemalteca Aura Marina Arriola, tornata per brevi giorni in Europa e in Italia, e che ho voluto salutare, nonostante i pressanti impegni reciproci, in una precipitosa andata a Roma, pochi mesi fa: non potevo prevedere che era un saluto definitivo.
Un'amica a me cara: per questo ne vorrei parlare anche ad altre donne. A suo tempo fu, in Guatemala, dirigente politica della resistenza armata: erano i lunghi decenni in cui nel piccolo paese centroamericano si succedevano le peggiori dittature della storia. In una nazione in cui più della metà degli abitanti è india, non parla lo spagnolo e vive tuttora il lutto per la perdita delle proprie divinità, "sconfitte" dalla conquista che mise fine ai regni Maya, non solo un golpe sanguinoso nel 1954 ha messo fine alla breve storia democratica aperta dal governo Arbenz, ma sono state
perpetrate le stragi atroci di cui Rigoberta Menchu, l'india premio Nobel che forse sarà candidata alla presidenza, ha dato testimonianza e sono stati perseguitati i diritti umani con imprigionamenti, torture e uccisioni di politici, sindacalisti, intellettuali.
Come capita spesso a chi si impegna in politica, le tradizioni di famiglia contano: il nonno di Marina era stato assassinato per ordine del dittatore Estrada Cabrera, il "Signor Presidente" del romanzo di Miguel Angel Asturias; il padre, un liberale progressista, aveva lottato contro i dittatori Ubico e Ponce ed era in carcere quando esplose la rivoluzione che aprì il cammino agli unici dieci anni di democrazia del Guatemala e che portò il dottor Arriola ambasciatore in Messico. Marina divenne sempre più consapevole delle condizioni misere dei popoli latinoamericani e fece scelte più avanzate, come capita alla generazione più giovane. Frequentando la facoltà di antropologia All'Università di Città del Messico, si era dotata di strumenti non solo culturali. Nel movimento studentesco è sempre stato facile sentire la suggestione dell'impegno estremista: la rivoluzione le sembrava la sola via di liberazione. Come donna, si scontrò con i problemi "di genere": con il padre che, progressista e massone, non accettava che una donna si dichiarasse atea; con i dirigenti politici
abituati a dare e non a ricevere ordini e irritati dagli interventi critici non "in linea"; con gli uomini amati che, anche nella relazione più calda, non si fanno carico delle responsabilità del proprio genere. Le persecuzioni del governo e i dissidi con i compagni causarono la scelta obbligata dell'esilio in Europa e l'Italia divenne il suo nuovo paese, da dove mantenne costante l'impegno politico e i contatti con la resistenza, come fanno tutti i fuorusciti.
Fu allora che ci siamo conosciute: io ero in Commissione esteri; mi occupavo molto di America Latina e conoscevo tanti esuli di quel continente. Esistevano allora in Italia "comitati di solidarietà" con quasi tutti i paesi a regime dittatoriale: rappresentavano luoghi in cui veniva affrontato seriamente almeno un problema e giovani e meno giovani ricevevano l'informazione corretta che i media normali non danno mai.
Allora scrivevo sul Manifesto; anche Marina si era molto legata a questo giornale, che dava particolare importanza all'internazionalismo, e al suo direttore.
Ma, a prescindere dalle vicende di persone e di anni di cui si crede di sapere quasi tutto, fu interessante anche il rientro di Marina in America latina e il suo stabilirsi in Messico, come ricercatrice, prima nell'Istruzione pubblica, poi alla Direzione di Etnologia e antropologia sociale dell'Università, dove espresse la sua professionalità senza smentire l'interesse politico. Come scomoda era stata con i suoi compagni, così seguì in totale autonomia l'evolversi della storia latinoamericana senza rinnegare un passato legato a condizioni precise della sua vita e della storia in generale, ma anche senza nostalgie per le rivoluzioni impossibili. Sempre attiva sul piano dei diritti - individuali e dei popoli - mi inviava materiali d'informazione, convinta - come sono io - che, se non ci si arrangia a cercare di capire come vanno per davvero le cose nel mondo, è inutile credersi di sinistra o progressisti. Da donna, teneva i piedi per terra. E si rendeva conto, come mi rendevo conto io da un altro paese, che bisognava seguire il mondo nelle sue trasformazioni: avere fede nell'utopia, significa spostare i traguardi delle successive realizzazioni presumibilmente positive per l'umanità, seguendone i problemi, le evoluzioni (o le involuzioni), le diversità. Le tensioni morali non cambiano, se anche le idee si trasformano, e non si perde rigore se l'esperienza mette in rilievo le complessità nuove da affrontare. Di questo parlavamo; poco, perché la distanza e gli impegni assillanti non consentivano scambi approfonditi continui, anche se con la posta elettronica molto si semplificava e arrivavano i documenti, importanti per rendersi conto che anche in Messico la realtà avanzava con questioni non prima pensate.
Marina non si dichiarava femminista, probabilmente perché aveva fatto politica "come un uomo". Ma non si teneva nel neutro. Nel 1980 avevo curato la pubblicazione della Lega per i diritti dei popoli intitolata Donne e Internazionalismo: Marina scrisse, da antropologa, sulla posizione della
donna nei movimenti di resistenza, puntualizzando la relazione del femminile con i ruoli politici - come militante nelle organizzazioni rivoluzionarie, nel sindacato, nelle lotte contadine e operaie, in carcere, nell'educazione politica e nell'elaborazione teorica, nella difesa, come dirigente -, in particolare all'interno delle proprie organizzazioni (la borghesia divide il proletariato, ma anche l'uomo suole dividere continuamente il "proprio" proletariato; esiste il rischio della donna-uomo, della caudillo femmina, mentre permane lo stalinismo del padre-padrone). Esistono anche i condizionamenti del ruolo sociale: la contraddizione tra la ribellione politica e i modelli tradizionali, tra l'esigenza di prassi rivoluzionaria e il suo opposto, la passività e il conformismo; così come l'integrazione tra donne borghesi e piccolo borghesi, contadine e operaie, indigene, meticcie e bianche, nubili e sposate. Più pregnante ancora la problematica sessuale, familiare, culturale: le donne partigiane nel giudizio dei loro figli così come le madri davanti alle scelte di militanza dei ragazzi; la condizione materiale della vita quotidiana nel rischio; lo stress fisico, emotivo, psicologico.
Né si deve dimenticare "il nemico". Nella guerra, infatti, la donna subisce i peggiori attentati alla sua dignità: il sadismo, la depravazione, la volontà di umiliazione rappresentano un accanimento "di genere", diverso dalle torture e dall'odio riservati ai maschi. Sono considerazioni che fanno "memoria storica", anche nel riandare ad un'amicizia scomparsa. Tuttavia, fanno anche pensiero attuale, perché, cambiati i termini, la sostanza è ancora la stessa. Drammatico constatarlo: significa che l'apporto delle donne, sempre più necessario per chi voglia migliorare il mondo, viene lasciato al palo. Marina ha scritto pochi anni fa 'Ese obstinado sobrevivir, autoetnografia de una mujer guatemalteca', la propria biografia. Quando me ne mandò copia, mi disse: "Sono stata una personalità non irrilevante sul piano politico; se fossi stata un uomo, dopo la mia morte, qualcuno avrebbe scritto di me. Sono una donna: meglio provvedere da sola". Meno male che l'ha fatto.
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