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Una nuova pronuncia della Corte costituzionale in tema di fine vita e suicidio assistito

Una nuova pronuncia della Corte costituzionale in tema di fine vita e suicidio assistito

Articolo di Ersilia Calvanese pubblicato nel nr 2/2024 di giudicedonna.it

Lunedi, 25/11/2024 -

Articolo di Ersilia Calvanese pubblicato nel nr 2/2024 di giudicedonna.it
Una nuova pronuncia della Corte costituzionale in tema di fine vita e suicidio assistito

Sommario
: 1. Premessa.-2. Precedenti pronunce della Corte costituzionale.- 3. L’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità.- 4. I profili di incostituzionalità denunciati.-5. Le conclusioni del Governo e la giurisprudenza della CEDU.-6. Il dibattito pubblico sulla questione.- 7. La sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 18 luglio 2024.  

1. Premessa

La Corte costituzionale è nuovamente intervenuta con la sentenza n. 135 del 18 luglio 2024 sul tema del suicidio assistito ed in particolare sui requisiti per la liceità della condotta di chi aiuta al suicidio persone gravemente malate.1

2. Precedenti pronunce della Corte costituzionale

La scelta della persona sul proprio fine vita ha trovato un primo riconoscimento grazie alla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da “trattamenti di sostegno vitale” e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. In sintesi, i requisiti congiunti per escludere la punibilità del suicidio assistito stabiliti dalla Corte costituzionale sono: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza dello stesso da trattamenti di sostegno vitali e la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. La sussistenza di tali condizioni deve essere verificata dal servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Corte costituzionale è poi tornata sul tema con la sentenza n. 50 del 2022, con cui ha dichiarato l'inammissibilità del referendum abrogativo della fattispecie di omicidio del consenziente di cui all'art. 579 del codice penale, svolgendo considerazioni estendibili anche al reato sopraindicato, individuando la ratio di tale micro-sistema normativo nella opportunità - o meglio, nella necessità costituzionale - di tutelare non solo le persone strutturalmente più fragili, bensì qualunque soggetto da condotte autodistruttive che possano essere, per le ragioni più varie, non sufficientemente meditate, e potenzialmente frutto di una decisione assunta, per motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilità soggettiva.

3. L’ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità

Nel caso oggetto dell’incidente di costituzionalità da ultimo sollevato in relazione all’art. 580 cod. pen., il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze era stato investito della richiesta di archiviazione presentata dalla locale Procura nei confronti di alcuni indagati ai quali era stato contestato di aver organizzato ed eseguito l’accompagnamento di un paziente, affetto da sclerosi multipla, per effettuare la procedura di suicidio assistito in una struttura sita all’estero. Il Giudice fiorentino ha ritenuto non applicabile la causa di “non punibilità” dell'aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale, in quanto non risultava integrato il requisito della dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” (di seguito, TSV), poiché il paziente non era concretamente sottoposto a trattamenti di tale tipo, né lo stadio di avanzamento della sua patologia richiedeva il ricorso a simili trattamenti. L’ordinanza in primo luogo ha evidenziato come la stessa Corte costituzionale non avesse fornito una definizione analitica e sistematica dei TSV, che nella pratica potevano riguardare un ampio novero di ipotesi, non limitato ai soli soggetti dipendenti da un respiratore artificiale o da altri macchinari (ad esempio quando la sopravvivenza del paziente sia strettamente legata alla somministrazione di numerosi farmaci volti a stabilizzare le funzioni vitali e ad un delicato equilibrio nel loro dosaggio, nonché alla necessità di intervenire periodicamente per l’espletamento da parte del paziente di funzioni vitali). Nel caso in esame, il paziente era soltanto dipendente e assistito da terzi e non vi era alcun trattamento TSV e neppure è stato ritenuto praticabile un ampiamento in via interpretativa di tale requisito, posto che veniva in gioco il delicatissimo bilanciamento tra interessi di rango costituzionale (il diritto di autodeterminazione e il diritto alla vita).

4. I profili di incostituzionalità denunciati

Su tali premesse, l’ordinanza ha ritenuto non manifestamente infondato il contrasto dell’attuale normativa con più parametri costituzionali.

4.1. In primo luogo con l'art. 3 della Costituzione, per la irragionevole disparità di trattamento che esso determinava tra situazioni concrete sostanzialmente identiche (quanto in particolare all'irreversibilità della malattia, all'intollerabilità delle sofferenze che ne derivano e alla capacità di autodeterminazione dell'interessato), finendo la liceità della condotta di terzi per dipendere dal fatto che la persona sia o meno tenuta in vita da TSV, ovvero da circostanze del tutto accidentali, legate alla multiforme variabilità dei casi concreti, in relazione alle condizioni cliniche generali della persona interessata (ad es. più o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestarsi della malattia da cui la persona è affetta (ad es. connotata da uno stadio più o meno avanzato, oppure da una progressione più o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché dalle scelte che lo stesso paziente abbia fatto (ad es. rifiutando fin dall'inizio qualsiasi trattamento). Per contro, il requisito dei TSV non portava con sé, se presente, alcun elemento di segno positivo tale da giustificare una considerazione più benevola da parte dell'ordinamento, né esprimeva, se assente, maggiore meritevolezza o bisogno di pena dei terzi agevolatori. Né la sua presenza apportava alcuna rassicurazione in ordine all’autenticità (“libertà e consapevolezza”) della decisione di morire, o alla “vulnerabilità” della persona che la assume, non rivestendo pertanto alcun valore realmente protettivo. Secondo l’ordinanza, si riproponeva la situazione già osservata dalla Corte costituzionale in relazione all'originario divieto assoluto di aiuto al suicidio: l'incriminazione, anche nella sua attuale portata, veniva a discriminare tra diverse categorie di pazienti, in modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale disparità potesse “ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.

4.2. L’ordinanza ha ravvisato altresì il contrasto con gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione. L'impossibilità di accesso al suicidio assistito per le categorie di pazienti irreversibili e sofferenti ma privi del requisito TSV si traduceva in una ingiustificata lesione dei loro diritti fondamentali, e in particolare della “libertà di autodeterminazione” del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze. La criticità, secondo il Giudice, stava proprio nel richiedere che il paziente fosse sottoposto a un trattamento : l'incriminazione, anche nella sua attuale portata, comprimeva in modo sproporzionato i diritti fondamentali del paziente, ancora una volta senza che tale limitazione potesse “ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.

4.3. Veniva evocato anche il contrasto della normativa in esame con il principio di dignità umana, in quanto finiva per imporre al paziente irreversibile e sofferente di attendere, anche per lungo tempo, quello che era ormai inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio in cui si renda necessaria l'attivazione di TSV, così sia frustando l'esigenza sostanziale sottesa alla ratio della decisione della Corte costituzionale (risparmiare alla persona morente un lento avvicinamento alla morte, consentendo l'intervento di terzi che lo abbrevino), sia creando un fattore di pericolo per la conservazione del bene vita e per il rispetto della dignità della persona (ovvero incentivare agiti suicidari da parte dei soggetti che, comprensibilmente non intenzionati ad attendere la fine inesorabile, non potendo ricorrere all'aiuto di terzi, decidano di darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito “legale” e con modalità prive di adeguata supervisione medica, spesso anche cruente e certo non conformi al concetto generalmente riconosciuto di dignità).

4.4. Il Giudice rimettente, infine, ha ravvisato il contrasto della vigente normativa anche con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e segnatamente con il quadro desumibile dalla giurisprudenza della Corte EDU sulle limitazioni alla liceità dell'aiuto al suicidio. Esse, quali interferenze dello Stato nella libertà di autodeterminazione della persona di cui all'art. 8 CEDU, devono essere considerate legittime solo in quanto volte a un fine legittimo e necessarie, se volte a proteggere il diritto alla vita, riconosciuto dall'art. 2 della stessa Convenzione. Secondo l’ordinanza del giudice fiorentino, il requisito in esame rappresentava una compressione del diritto di cui all’art. 8, nè funzionale nè tantomeno necessaria alla tutela del diritto alla vita e che comunque sacrificava in modo sproporzionato l'interesse a morire della persona che abbia preso tale decisione in modo libero e consapevole. Né il requisito poteva rientrare nel margine di apprezzamento dello Stato per il bilanciamento tra tali diritti, in quanto verrebbe violato il principio di non discriminazione nella tutela e nel godimento dei diritti convenzionalmente riconosciuti.

5. Le conclusioni del Governo e la giurisprudenza della CEDU

All’udienza tenutasi lo scorso 19 giugno, il Governo ha concluso per la inammissibilità o l’infondatezza della questione, in quanto il suo accoglimento avrebbe portato ad uno stravolgimento della sentenza n.242 del 2019 della Corte costituzionale ( che individuava i criteri di legittimità per l’aiuto al suicidio ), sostituendosi al Parlamento, sollecitato dalla stessa Consulta a legiferare sul tema. Peraltro, le Camere, dopo anni di richiami, non sono mai intervenute con una legge organica per regolare la materia. Va segnalato anche che pochi giorni prima dell’udienza è stata pubblicata la decisione della Corte europea (sentenza 13 giugno 2024, caso K. c. Ungheria, ricorso n. 32312/23), che ha affrontato il delicato tema del diritto al suicidio assistito. Il ricorrente, affetto da una malattia neurodegenerativa progressiva incurabile, allo stato terminale, aveva lamentato l’impossibilità di essere assistito a morire, in virtù di un divieto generale in Ungheria e all’estero.
La Corte EDU ha escluso che vi sia stata la denunciata violazione degli art. 8 e 14 della Convenzione. Dopo aver passato in rassegna le normative nazionali ed internazionali, la Corte ha rilevato come la maggior parte degli Stati membri avesse continuato a vietare anche penalmente l'assistenza al suicidio, compresa la morte assistita dal medico ("PAD"), nonostante l'emergente tendenza alla depenalizzazione in particolare per quanto riguarda i pazienti che soffrono di condizioni incurabili e che nessuna base vi fosse negli strumenti internazionali pertinenti (tra i quali la Convenzione di Oviedo) per concludere che gli Stati membri siano stati in tal modo invitati o tantomeno tenuti a fornire l'accesso alla PAD. La Corte ha altresì evidenziato come fossero state accordati ai pazienti terminali cure palliative di alta qualità, compreso l'accesso ad una gestione efficace del dolore, essenziali per garantire una dignitosa vita finale e nella specie il richiedente non aveva lamentato che le cure palliative a sua disposizione (compreso il ricorso alla sedazione) fossero inadeguate. Secondo la Corte, il divieto penale di suicidio assistito, inclusa la sua applicazione a qualsiasi persona che aiuti il richiedente a ricorrere alla PAD all'estero, non era sproporzionato, tenuto conto del margine di apprezzamento concesso dalla Convenzione allo Stato convenuto (alla luce delle questioni morali ed etiche estremamente delicate che il tema coinvolgeva e della diversità anche profonde di opinioni riscontrate nei paesi democratici). Quanto alle implicazioni derivanti dall’art. 2 CEDU, la Corte ha ritenuto opportuno sottolineare che tale norma non impedisce alle autorità nazionali di autorizzare o fornire la PAD, a condizione che quest'ultima sia accompagnata da garanzie appropriate e sufficienti per prevenire gli abusi e garantire così il rispetto del diritto alla vita. E proprio la ricerca di questo difficile equilibrio tra i rischi di abuso ed errore implicati nella fornitura di PAD e le esigenze del paziente rende non sproporzionata la decisione dello Stato di non legalizzare la PAD. La Corte ha anche escluso l’altro profilo sollevato dal ricorrente in ordine ad una presunta discriminazione tra pazienti dipendenti da TSV e quei pazienti che non lo erano e che di conseguenza non potevano accelerare la loro morte rifiutando tale trattamento, trattandosi di differente regime oggettivamente e ragionevolmente giustificato. 

6. Il dibattito pubblico sulla questione

Nell’attesa della decisione della Corte costituzionale si erano espresse autorevoli voci su quello che costituisce un dibattito dalle delicatissime implicazioni etiche e sociali e anche strettamente mediche (si veda su Avvenire l’intervento di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, e di Marcello Ricciuti, componente del Comitato nazionale per la bioetica, nonché su Quotidiano sanità, di Maurizio Mori, componente del Comitato nazionale per la bioetica). In particolare, il presidente emerito Flick si è espresso in favore di un intervento normativo sulla materia al fine di ricercare la “soluzione più accettabile fra quelle possibili”, sempre operando nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti della persona, così da evitare una “deriva scivolosa” senza limiti. Su tale fronte va segnalata la imminente ripresa dei lavori parlamentari su vari disegni di legge sul tema depositati (atti Senato nn. 65, 104, 124, 570 e 1083, sui quali cfr. il Dossier n. 51 sul sito del Senato). Va anche rammentato che il Comitato nazionale per la bioetica si è da ultimo pronunciato (parere del 20 giugno 2024) su un quesito sollevato dal Comitato Etico territoriale della Regione Umbria sulla nozione di “trattamento di sostegno vitale”: secondo l’opinione della maggioranza, in mancanza di una definizione medica condivisa, i TSV devono costituire una vera e propria sostituzione delle funzioni vitali, e che la loro sospensione deve comportare la morte del paziente in tempi molto brevi.2 Non sono mancati i commenti di esponenti del Vaticano. È circolata sui media la notizia di una qualche “apertura” della Chiesa sul fine vita. Come è stato spiegato da fonti vicine al Vaticano, tutto nasce da una recente pubblicazione della Pontificia Accademia per la Vita, Piccolo lessico, che ha annoverato tra i diritti del malato quello di sospendere nutrizione e idratazione artificiali in caso di malattia «stabile e irreversibile» e «con possibilità praticamente nulle di recupero». In definitiva, si vuol evitare l’accanimento terapeutico. Si tratta di una posizione già espressa dalla Chiesa da tempo e quindi in definitiva non vi sarebbe alcuna novità.  Va infine segnalato che è stata pubblicata la notizia che è stata emessa il 21 giugno scorso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano un’altra ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sull’art 580 cod. pen., riguardante il caso di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di TSV (l’ordinanza è stata pubblicata dalla rivista Giurisprudenza penale3).

7. La sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 18 luglio 2024

La sentenza La Corte costituzionale non ha ritenuto fondato nessuno dei profili di frizione costituzionale sollevati dal Giudice fiorentino, ribadendo i requisiti già indicati per l’accesso al suicidio assistito. Quanto alla dedotta irragionevole disparità di trattamento, la Corte ha ribadito che il requisito della dipendenza del paziente da TSV svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con la sentenza n. 242 del 2019 e non può cedere di fronte a situazioni differenti (l’aiuto al suicidio assistito lecito riguardava non tutti i pazienti affetti da patologie irreversibili e risultanti in situazioni di sofferenza intollerabile, ma soltanto quelli che, dipendenti da TSV, avevano il diritto di rifiutare le terapie di sostegno vitale e quindi di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure). Relativamente alla violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente, la Corte ha osservato che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all'autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, creando - al tempo stesso - rischi che l'ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall'art. 2 Cost. (rischi connessi anche alla possibilità che si crei una «pressione sociale indiretta» su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l'intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte). La Corte ha ribadito che non è suo compito quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all'autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il “limite minimo,” costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi (già fissato dalle precedenti pronunce sul tema), restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all'uno o all'altro una tutela più intensa. Secondo la Corte, non poteva ritenersi fondata neppure la pretesa contrarietà della normativa al principio di tutela della dignità umana, là dove costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, "non degna" di essere vissuta. Anche accedendo ad una nozione "soggettiva" di dignità, la questione, secondo la Corte, viene in definitiva ad investire la libertà di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l'idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte. In questa prospettiva, un tale diritto deve essere sottoposto necessariamente a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana (in ordine al quale il legislatore deve poter disporre di un significativo margine di apprezzamento). Quanto poi alla violazione dei parametri sovranazionali, la Corte ha richiamato il recente arresto della Corte EDU, sopra esposto, dal quale ha ritenuto di non discostarsi. La Corte ha infine precisato - a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi - che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata nelle sue precedenti pronunce deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio delle sue precedenti pronunce. Tale nozione deve includere ogni trattamento sanitario, “incluse […] quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente.” Nella misura in cui tali procedure - quali, per esempio, l'evacuazione manuale dell'intestino del paziente, l'inserimento di cateteri urinari o l'aspirazione del muco dalle vie bronchiali - si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l'espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell'applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019. Tutte queste procedure - proprio come l'idratazione, l'alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione - possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare. Per fugare i timori di progressiva incontrollata estensione dei presupposti del suicidio assistito paventati in sede di discussione, la Corte ha poi ribadito come l'accertamento della condizione della dipendenza del paziente da TSV debba essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019 (così l'esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente - evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica -, la presenza di sofferenze intollerabili e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative, di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa "sofferenza esistenziale" che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative) e come sia anche necessario il puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019. Infine, la Corte ha ribadito con forza l'auspicio, già formulato nell'ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina; come anche lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019, affinché, sull'intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010.


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