Una nuova agenzia delle Nazioni Unite per le donne: cambiare tutto perché cambi qualcosa - di Beatri
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione che darà vita a UN WOMEN, la nuova agenzia ONU dedicata alla promozione dei diritti delle donne e all’uguaglianza di genere
Giovedi, 29/07/2010 - 15 luglio 2010. Dopo mesi di discussioni e trattative, il 2 luglio l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione che darà vita a UN WOMEN, la nuova agenzia ONU dedicata alla promozione dei diritti delle donne e all’uguaglianza di genere. La notizia non ha suscitato particolari reazioni o commenti, neppure da parte del Dipartimento delle Pari Opportunità o dal Ministero degli Affari Esteri; solo qualche ripresa su siti internet per addette ai lavori. La nuova struttura – operativa dal gennaio 2011 – sarà guidata da un Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite e racchiuderà in sé quattro entità, fino ad oggi operanti in maniera separata: il Fondo di Sviluppo per le donne (UNIFEM), la Divisione per l’emancipazione delle donne (DAW), l’Istituto di Ricerca e Formazione internazionale per l’emancipazione delle donne (INSTRAW), l’Ufficio del Consigliere Speciale del Segretario Generale ONU sulle tematiche di genere (OSAGI). La presenza di queste nomenclature bizantine e delle inevitabili sovrapposizioni di agende e competenze tra questi organi fa dubitare che fino ad oggi i diritti delle donne siano stati promossi all’interno delle Nazioni Unite in maniera efficiente ed efficace. Una buona iniziativa dunque? Pur nel carico di stanchezza, lentezza e sfiducia che l’immaginario comune ha delle organizzazioni internazionali, dovremmo dire di sì. La pensano così almeno trecento associazioni che nel mondo hanno seguito - con la caparbietà e la costanza silenziosa tipica delle organizzazioni femminili - il farraginoso processo che, vincendo resistenze di Stati membri e lungaggini di apparato, ha portato all’istituzione di UN Women. La rete della società civile che si è costituita per sostenere la formazione della nuova agenzia – Gender Equality Architecture Reform Campaign – non si è risparmiata in lettere, comunicati, raccolte di firme, nella convinzione che questo cambiamento sia importante e che l’inefficacia di una o più istituzioni a scapito della vita delle donne vada (ancora) contrastata. A qualcuno del resto spetta di esigere e sperare che la creazione di questa agenzia garantisca un maggior coordinamento all’interno delle Nazioni Unite e con i governi, permettendo loro di ridurre la mortalità materna, avere più donne nei luoghi decisionali, proteggere l’integrità fisica delle donne, valorizzare il potenziale professionale e intellettuale di giovani donne, ridurre il carico di cura affidato all’universo femminile. Eppure rimane l’impressione di tornare indietro nel tempo: ancora, nel 2010, serve un’agenzia “per le donne” ancora “specie” da proteggere, promuovere, accompagnare? Dov’è finita la promessa del gender mainstreaming degli anni ’90, che avrebbe dovuto includere una prospettiva di genere a qualunque politica, legge, programma? Cosa non ha funzionato? Nonostante decenni di discussioni, centinaia di programmi e progetti, convenzioni internazionali, siamo ancora di fronte a dati sconcertanti rispetto alla condizione femminile nel mondo. A parità di mansione le donne mediamente percepiscono il 17% di salario in meno e sulle donne pesa la maggior parte delle responsabilità domestiche, di cura e di lavoro non retribuito. Due terzi degli adulti analfabeti sono donne e meno della metà delle madri nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo possono partorire assistite da personale sanitario. La violenza è la prima causa di morte per le donne tra i 15 ei 44 anni e su dieci persone vittime di tratta otto sono donne e ragazze. Matrimoni forzati e stupri si contano a decine di milioni mentre troppo poche le donne in Parlamento, nei Ministeri, nei consigli di amministrazione, con rare eccezioni e non sempre nei Paesi industrializzati. Si prova imbarazzo a ripetere così spesso gli indicatori di disuguaglianza che dovrebbero rendere prioritario, deciso ed unanime l’impegno per restituire voce, dignità e autonomia a più della metà della popolazione mondiale. E invece non stupisce nemmeno più che la disuguaglianza di genere sia un tema residuale dell’agenda politica nazionale e internazionale. In Italia del resto è convinzione comune che tutto o quasi sia stato raggiunto e che non ci sia più ragione di rivendicare spazi, tempi e diritti per le donne. Questo nonostante le donne tra Montecitorio e Palazzo Madama siano meno delle parlamentari in Rwanda, Mozambico, Nepal, Perù; nonostante la percentuale di donne italiane formalmente occupate sia di 10 punti percentuali sotto la media europea e nonostante una donna venga uccisa mediamente ogni tre giorni (nella stragrande maggioranza dei casi per mano di partner, ex partner o di un famigliare). Si potrebbe tristemente continuare. Nondimeno negli ultimi trent’anni molto è cambiato nelle condizioni di vita materiale per le donne e nel dibattito pubblico o nei fora di elaborazione di pensieri e strategie. In molti contesti le donne sono passate da “categoria protetta” a risorsa preziosa, vettore di crescita e benessere, soggetto da includere non solo più per ragioni di pari opportunità ma perché la differenza può costituire valore aggiunto. Anche il World Economic Forum ha dimostrato che più un Paese è equo, più è competitivo e che investire per ridurre le disuguaglianze è economicamente conveniente, poiché massimizza le risorse a disposizione. In questi anni di crisi (alimentare, finanziaria, climatica) le donne vengono (a volte opportunisticamente) chiamate in causa come attori chiave per trovare vie di uscita e altri modelli di sviluppo più sostenibili. La prospettiva di genere e l’analisi economica femminista hanno contribuito a rinnovare anche la disciplina economica, investigando il nodo produzione-riproduzione, costruendo analisi dei bilanci pubblici sensibili alla dimensione di genere, introducendo statistiche e dati prima ignorati. Qualcuno (e non solo qualcuna) sostiene che guardare al mondo attraverso gli occhi di una donna può significare introdurre radicali trasformazioni negli assetti politici, economici e sociali esistenti, scoprire quanto lavorano le donne che – secondo le statistiche ufficiali - “non lavorano”, quanto contribuiscono al benessere comune, come il benessere stesso debba essere rimesso al centro dell’analisi della nostra società e come quello individuale sia correlato a quello collettivo. Luci e ombre dunque per le donne del XXI secolo che da un lato vedono oggi aprirsi nuovi orizzonti, possono contare su molti più alleati tra organizzazioni non governative e istituzioni statali, ma dall’altro vivono ancora penalizzate da sistemi ampiamente discriminatori. E’ con questo scenario che l’agenzia UN Women dovrà avere a che fare ed è solo nella consapevolezza al contempo di guadagni e ritardi che è pensabile il miglioramento della situazione complessiva. Il 2010 offre diverse occasioni, visto che si concentrano anniversari di dichiarazioni e convenzioni spesso usati come stimolo per rinvigorire impegni e rivedere l’incompiuto. Ricorrono i dieci anni dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1325/2000 su “donne, pace e sicurezza”, documento chiave per valorizzare il ruolo delle donne in contesti di conflitto e post conflitto oltre che per ridurre la violenza e combattere l’impunità dei perpetuatori di stupri e atrocità di guerra sui corpi delle donne. Si discuterà a breve lo stato di avanzamento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per i quali è stato riconosciuto come cruciale la realizzazione dell’eguaglianza. E’ appena trascorso il trentesimo anniversario della CEDAW, la Convenzione per eliminare le discriminazioni contro le donne, vincolante per i 186 stati che l’hanno ratificata. Non più tardi di tre mesi fa si è celebrato a New York il quindicesimo anniversario della Dichiarazione di Azione di Pechino, che nel 1995 ha segnato una tappa fondamentale per l’emancipazione delle donne. Tanti documenti, tanto importanti e altrettanto sconosciuti. Perché? Una ragione risiede nella mancanza di risorse che sappiano tradurre queste documenti in realtà: consueto problema ogni volta che si crea una nuova struttura o dopo che si approva una legge, perché il più delle volte a determinare il fallimento o l’inefficacia di misure innovative per l’uguaglianza di genere è la mancanza di risorse finanziarie e umane che consenta di passare dalle dichiarazioni alla pratica. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban-Ki Moon ha parlato di un iniziale stanziamento di 500 milioni di dollari necessari per UN Women; la società civile chiede il doppio delle risorse per avviare credibilmente il lavoro dell’agenzia (anche perché si tratterebbe di un umile 0,5% delle spese di tutte le agenzie ONU nell’anno 2008). In ogni caso si tratta di quasi raddoppiare l’attuale bilancio delle agenzie incaricate ad oggi dei diritti delle donne nelle Nazioni Unite: un investimento poco credibile in tempo di crisi economica globale e di diminuzione di aiuto pubblico allo sviluppo da parte di molti paesi donatori. Potremmo stabilire quanto toccherebbe all’Italia, ma sarebbe puro esercizio di stile, visto che il nostro Paese è moroso nei confronti di diverse istituzioni internazionali, come il Fondo Globale per la lotta all’AIDS, TBC e Malaria. Se volesse mantenere una linea di coerenza, tuttavia, l’Italia dovrebbe collocarsi al terzo posto per generosità dal momento che nel 2008 si piazza solo dopo Spagna e Norvegia per contributi a UNIFEM. Non resta che attendere dai Ministeri competenti nostrani risposte e impegni vincolanti, che molto probabilmente non arriveranno. I soldi non fanno la felicità, si dice. Potremmo almeno metterci la faccia, promuovendo la leadership al femminile con una coraggiosa e significativa presenza di donne in fora e istituzioni internazionali. Anche qui, sarebbe tutta in salita su consideriamo che fino all’anno scorso le donne erano solo il 16% dei diplomatici italiani (di cui più della metà ai livelli iniziali della carriera) e solo due direzioni generali del Ministero Affari Esteri erano guidate da una donna. Il dialogo tra istituzioni e società civile in occasioni di conferenze internazionali in tema di diritti delle donne non è regolare, né affidato a meccanismi di consultazione stabili. Il risultato è che la voce delle donne italiane resta fragile e fioca non solo all’interno dei nostri confini e il guadagno di lotte, riflessioni, percorsi e pratiche autentiche e innovative del femminismo italiano sono sempre più raramente materia di condivisione con colleghi e colleghe del villaggio globale. Del resto, è estate. Perché pensarci ora? Ci sono le vacanze e la manovra finanziaria. C’è sempre qualcosa di più importante. Più importante che occuparsi della vita di tre miliardi di persone.
*Beatrice Costa si occupa di ricerca e analisi sui diritti delle donne e sulle politiche di genere per ActionAid [www.actionaid.it; beatrice.costa@actionaid.org]
FOTO: Jenny Matthews/ActionAid: Goma DRC November 2008. Mugunga 2 camp for displacedMembers of SAUTI (Sauti ya Mwanamke Mkongomani) which means Voices of the Women of Congo, wait to meet Lord Malloch Brown at Mugunga 2 camp on the outskirts of Goma. The women wore placards around their necks calling for peace and the protection of women in the wake of the conflict. Fouraha with a sign saying 'Respect UN resolution 1325'
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