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Una mostra rosa shock

Una mostra rosa shock

Cultura/ La Biennale di Venezia - Approdano a Venezia due direttrici dopo una lunga serie di conduzioni maschili

Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2005

Svolta storica in Biennale. Dopo centodieci anni di conduzioni maschili (a partire dal 1895, anno in cui è nata), l’Esposizione internazionale d’arte di Venezia apre le porte alle donne. La sua 51° edizione vede, per la prima volta, due direttrici alla guida delle due sezioni della Mostra, le spagnole Rosa Martínez e María de Corral. La scelta ha avuto una ricaduta benefica sull’intero impianto della manifestazione che conta sulla partecipazione di un buon numero di artiste provenienti da tutto il mondo.
Non sarebbe giusto ridurre i fatti dell’arte in questioni numeriche. Ma dopo più di un secolo di ostruzionismo maschile, che ha pesato nel campo del mercato dell’arte, è lecito esprimere soddisfazione. Ecco qualche dato che rende meglio l’idea: alla prima Biennale del 1895 le artiste presenti erano solo il 2,4%; nel 1995, cento anni dopo, le cose non vanno meglio e la percentuale sale appena di qualche punto, attestandosi al 9%.
Negli spazi dell’Arsenale il pubblico è accolto da un “Benvenuti alla Biennale femminista”, scritto sul manifesto delle Guerrilla Girls, gruppo di artiste americane che dal 1985 organizzano azioni di guerriglia metropolitana; con abiti sexy e mascheroni da gorilla, attaccano manifesti-denuncia contro il maschilismo dei direttori di musei e dei grandi galleristi.
In Biennale le scritte sono molte. Ci sono quelle ironiche: “Non dirmi cosa fare. Non dirmi dove andare. Non guardarmi così. Non farmi promesse”. Ci sono quelle esplicite: “Liberate le donne artiste di Venezia. I musei tengono il 91% delle donne nei depositi. Ditegli che volete più donne allo scoperto”.
I giorni dell’inaugurazione della Mostra, hanno coinciso con la campagna per il referendum sulla procreazione assistita, la cosa ha reso di maggiore impatto i messaggi di marca femminista.
La cosa pare non sia piaciuta a Rocco Buttiglione; caso eccezionale se fosse stato il contrario. Il ministro dei Beni Culturali ha criticato in modo particolare la dissacrazione delle immagini religiose: «L’arte oscena, non fa più scandalo. Oggi la vera trasgressione sarebbe raffigurare embrioni e feti». L’impianto femminista non è piaciuto neanche ad altri storici dell’arte che, approfittando della cassa di risonanza offerta dalla Mostra, hanno rilasciato numerose dichiarazioni critiche facendo sfoggio della loro brillante cultura ma non della loro capacità di comprensione.
Al di là delle distinzioni tra le opere più o meno riuscite, belle o brutte, significative o insignificanti. Distinzioni che da sempre appassionano le dissertazioni critiche del mondo artistico, sembra giusto qui introdurre una riflessione di Rosa Martínez: “La Biennale è un’opportunità di incontri e di confronti tra generazioni e tra culture diverse. È qualcosa che supera i poteri politici e i poteri dei grandi Musei. La biennale è uno spazio avanzato, sede naturale per conoscenze allargate che restituiscono forza alle voci dell’arte periferica e globale, quell’arte che ci aiuta a capire meglio il nostro mondo, che ci aiuta a riflettere sulla nostra esistenza”.
Consapevoli del significato storico dell’evento, e in accordo con chi ha dato loro tale incarico, il neo presidente della Biennale Davide Croff, le curatrici hanno affrontato lo stato dell'arte contemporanea da due diversi punti di vista: uno sguardo sul rapporto tra il presente e il passato; un secondo sguardo sul rapporto tra il presente e le tendenze più innovative.
Rosa Martínez - che ha allestito i nove mila metri quadrati dell’Arsenale, tra Corderie e Gaggiandre – accoglie tutti con il grande lampadario della franco-portoghese Joana Vasconcelos (classe 1971), assemblato con 25mila assorbenti igienici interni: l’intimità del ciclo femminile esplode e cala dall’alto come un bianco, soave abito da sposa reso con sfacciata ironia.
Dall’altra parte del canale, dov’è l’altra sezione curata da María de Corral, all’ingresso del Padiglione Italia, Monica Bonvicini accoglie i visitatori con un altro lampadario: un assordante ‘Mitra-trapano’ appeso al soffitto, mentre l’ambiente intorno è rivestito dall’americana Barbara Kruger con un originale ‘Tatuaggio murale’.
Il padiglione Italia, è intitolato ‘L’esperienza dell’arte’. “Non c’è un tema - spiega la de Corral - ma una cosmologia. Gli artisti sono legati da un fil rouge che è il loro modo di vedere il mondo e raccontarlo. La mia mostra non vuole essere uno spettacolo, ma un viaggio nell’intimo dell’artista".
Tra le opere dei 419 artisti, presentate nelle 105 esibizioni che compongono l’intera Biennale, spicca il video-polittico della coreana Kimsooja, dove l’artista si autoritrae immobile di spalle in mezzo ad una massa di persone che le camminano controcorrente, una sorta di invito poetico ad un bagno di folla, a rendersi disponibili all’incontro con città e civiltà del mondo. E c’è l’americana Jennifer Allora e il cubano Guillermo Calzadilla portano un ippopotamo gigante di fango, con una ragazza seduta in groppa a leggere quotidiani suonare un fischietto ogni volta che legge un’ingiustizia.
La giapponese Mariko Mori regala "Wave Ufo" la gigantesca balena-astronave lucida e piombata piena di effetti speciali elettronici e digitali. È una sorta di Ufo in mezzo alla Biennale che si trasforma nella camera dei sogni e delle allucinazioni del pubblico. Registra le onde cerebrali, paure, ansie e deviazioni del pensiero collegando la persona al circuito visionario e si parte per sette/otto minuti di «trip» inconscio.
C’è poi l’arte di denuncia, nel funerale in presa diretta con scelta di colonna sonora nel memorial per i caduti della ex Jugoslavia ed i torturati universali della tedesca Paloma Varga Weisz che rimandano a Abu Ghraib.
E c'è la body-artist Regina José Galindo, guatemalteca, che riporta alla presa di contatto con il personale, mettendo in mostra una operazione di imenoplastica, un vero shock per lo sguardo e poi si fustiga dentro un'architettura di cemento che la seppellisce nel suo dolore-martirio.
Da non perdere, le opere pittoriche. I due grandi e suggestivi trittici, targati anni ’79 e ’80, di Francis Bacon, provenienti da collezioni private; i sette meravigliosi dipinti mai visti prima della sudafricana, ma olandese d’adozione, Marlene Dumas, alcuni realizzati per l’occasione e altri attinti dalla sua collezione privata; le opere fumettistiche di Philip Guston, le potenze materiche di Antoni Tàpies sempre vertiginose, i giochi di incastri geometrici e colori primari del messicano Gabriel Orozco; gli interni metafisici-pop del tedesco Matthias Weischer.
Tra i video, c’è un delizioso "La Vista" dell’ex enfant-prodige argentino Leandro Erlich, oggi trentaduenne, realizzato tra il 1997 e il 2004, che strizza un occhio all’idea della "Finestra sul cortile"; e c’è un claustrofobico "Factory", il lavoro del taiwanese di culto Chen Chieh-jen che propone un video del 2003 sulla rioccupazione di una fabbrica di indumenti. Elegante e poetico il sudafricano William Kentridge, che presenta una grande installazione composta da nove video singoli del 2003 montati insieme per l’evento veneziano. Ipnotico è invece l’americano Bruce Nauman, con una videoinstallazione che induce a riflettere sulla natura del potere, dove una cantilenante voce fuori campo impartisce indicazioni ad mimi-pagliacci che diventano sempre più improbabili.

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