Tunisia - Uguaglianza senza riserve: è quello che chiede l’Associazione delle donne democratiche tunisine
Antonelli Barbara Lunedi, 24/01/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2011
La Tunisia vanta dagli anni Cinquanta, un testo legislativo pioneristico, in materia di diritti e tutela delle donne, soprattutto se paragonato ad altri paesi islamici del Medio Oriente. Un Codice dello Statuto personale che, dal 1957, ha portato grandi riforme, non solo vietando la poligamia e il concetto di “ripudio” della donna, ma anche istituito il divorzio giudiziario, ha fissato a 17 anni l’età minima perché giovani donne (dietro proprio consenso) possano sposarsi, e aumentato la possibilità di tutela della madre sui figli.
Eppure nonostante una legislazione così avanzata, la condizione delle donne tunisine oggi è strettamente legata a quella generale del paese, dove un presidente, il generale El Abidine Ben Ali, al potere consecutivamente dal 1987, ha instaurato un “autoritarismo democratico”, mettendo in moto una macchina repressiva, all’inizio solo come contenimento verso l’Islam, poi come soppressione di ogni forma di dissidenza. I diritti umani e delle donne sono stati utilizzati dal potere regnante come mezzi ideologici nella corsa verso l’Occidente, che ha fruttato alla Tunisia il posto di partner privilegiato dell’Unione Europea ma che ha silenziato qualsiasi voce contro, considerata appunto “nemica della democrazia”. Compresa la voce delle donne. Oggi le organizzazioni per i diritti umani rilevano sempre più l’enorme divario che esiste tra quello che le autorità tunisine proclamano per ottenere favori dalla UE e una situazione di fatto che vede i diritti umani quotidianamente violati. Democrazia, pluralismo, libertà di associazione ed espressione sono oggi illusioni.
Il sostegno alle donne e alla loro emancipazione, si è espresso nel “regime” del generale Ben Ali come tentativo di proiettare un’immagine di modernità e democrazia all’estero, nascondendo però l’altra faccia del paese. Nel 1987 quando il presidente assunse il potere, annunciò una serie di riforme relative al rispetto dei diritti delle donne, che dal 1993 sono, in effetti, state attuate: sono stati accordati alcuni diritti alla donna in materia di tutela sui minori; è stata anche introdotta una pensione, un fondo alimenti per donne divorziate (solo nel caso i loro mariti siano giudicati “irresponsabili”). Inoltre con la riforma del codice penale, un uomo che uccide la moglie adultera e colta in flagrante, non può più ricorrere a circostanze attenuanti.
Ovviamente questa serie di riforme rappresenta un passo in avanti verso l’uguaglianza dei sessi, anche se la donna è relegata al ruolo sottomesso di moglie e madre e l’uomo rimane il capo indiscusso della famiglia tunisina. In termini di eredità, regna sovrano il diritto islamico, la Sharia: ancora oggi le ragazze ereditano la metà di quanto spetta ai ragazzi. La violenza rimane ancora un argomento tabù; e le madri single, con figli non riconosciuti, non sono un problema dello Stato tanto è vero che sono ignorate dalla legge.
Dal 1993 a oggi non vi sono stati grandi progressi e molto del lavoro sul campo si deve alle organizzazioni femministe, che hanno creato spazi di discussione per assicurare che la questione della parità tra i sessi non fosse dimenticata.
L’Associazione delle donne democratiche tunisine (ATFD), è nata nel 1989 ed ha fatto del sostegno alle donne e del femminismo i suoi pilastri principali, conducendo battaglie in nome della libertà e della democrazia della Tunisia, ed estendendo il suo raggio di azione nel più generale campo della difesa dei diritti umani: perché crede i diritti delle donne non possano essere raggiunti al di fuori di un processo democratico che interessi tutto il paese. Nulla si ottiene cioè se non si ha per prima cosa la libertà di agire, riunirsi, esprimere liberamente le proprie idee. Ne parliamo con Safia Farhat, da anni attivista della ATFD.
Qual è la situazione oggi?
Molto ancora deve essere fatto in termini di uguaglianza dei sessi, per questo la ATDF ha redatto un rapporto alternativo a quello ufficiale governativo, che abbiamo sottoposto alla 47sima sessione del CEDAW (Comitato delle Nazioni Unite per eliminazione delle discriminazioni contro le donne).La Tunisia ha infatti sottoscritto il CEDAW ma molte forme di discriminazione a danno delle donne rimangono evidenti. Il principio di non-discriminazione è stato incorporato nel diritto del lavoro e negli statuti dei servizi pubblici mentre non figura nel Codice dello statuto personale, né in maniera chiara nella Costituzione (che parla genericamente di “uguaglianza tra cittadini di fronte alla legge”) Le riserve usate dal Governo nascono proprio dall’articolo 1 della Costituzione tunisina che dichiara che l’Islam è la religione di stato. Ora sulle basi della religione islamica, vengono pertanto adottate pratiche, provvedimenti che, di fatto, discriminano le donne. E fanno si che alcuni articoli del CEDAW non si applichino alla Tunisia o solo con riserva.
In quali casi?
Ad esempio una madre tunisina che sposa uno straniero, trasmette la propria nazionalità solo se i suoi figli sono nati sul suolo tunisino. E solo se il marito è d’accordo. In ambito familiare poi è l’uomo a esercitare la piena autorità nelle vesti di capofamiglia. Oltre al fatto che il cognome dei figli è quello del marito e cosi anche per la nazionalità (salvo che non vi sia un consenso esplicito del coniuge). Mentre da anni la nostra associazione chiede che non sia il marito l’unico responsabile della famiglia ma che si istituisca una autorità parentale. C’è poi il mantenimento della dote, (che a oggi non è più condizione vincolante la validità del matrimonio, e anzi il governo ha condotto una campagna perché sia simbolicamente pari a un dinaro, NdR) che rappresenta un simbolo del patriarcato. Nonostante la riforma progressista del 1993, uomini e donne non godono di reciprocità in termini di diritti e obblighi all’interno del vincolo coniugale.
Qual è invece la situazione delle donne tunisine negli spazi pubblici e nelle istituzioni?
Le donne votano, possono essere elette e sono presenti nelle istituzioni e la loro rappresentanza nel parlamento è sicuramente cresciuta. Eppure anche se questi indicatori sono positivi, vanno contestualizzati all’interno di una situazione politica che è di fatto “chiusa”, restrittiva per chi non fa parte del coro. Basta fare un esempio: nel rapporto ufficiale, il governo tunisino ha sottolineato un incremento del numero delle donne nei posti di alto livello ai vertici decisionali, ma l’accesso a questi posti dipende – sia per gli uomini che le donne – dall’affiliazione politica. Chi non si allinea al potere dominante è fuori. In Parlamento ci sono quote rosa, ma quelle donne non ci rappresentano, Sono donne di partito e si sa che in Tunisia le elezioni sono truccate e che anche l’opposizione è filogovernativa.
Il regime di Ben Ali ha avuto effetti devastanti sulla libertà di associazione e autonomia di associazioni quali l’ATFD o l’AFTURD (associazione donne tunisine per la ricerca e lo sviluppo): che vengono lasciate fuori dalle consultazioni governative e dai media, anche su temi vitali, quali la violenza contro le donne. Alle attiviste di queste ONG come avviene per i dissidenti e le figure indipendenti, viene rifiutato l’accesso agli spazi pubblici e limitata la libertà di movimento; sono all’ordine del giorno vere e proprie campagne diffamatorie messe in atto contro le madri o mogli di attivisti, giornalisti, politici indipendenti: basta vedere il caso dei sindacalisti che diedero vita alla protesta a gennaio del 2009 nella poverissima regione di Gafsa. E senza fondi governativi è difficile reclutare nuovo staff. Quale è la situazione per ATFD?
Noi siamo un’associazione autonoma e indipendente, non riceviamo finanziamenti dal governo, che anzi da anni ci ha bloccato i fondi dell’Unione Europea, quelli di della fondazione spagnola ACSUR diretti a un centro di accoglienza, quelli del Network euro mediterraneo per i diritti umani, finanziamenti che rimangono bloccati dalla Banca centrale e che non ci sono mai pervenuti. Stiamo sopravvivendo con l’unico finanziamento che ci arriva, quello di UNIFEM (per il progetto di una università femminista), che avendo un rappresentante qui in Tunisia, ci trasmette il finanziamento direttamente in dinari, senza passare per la Banca centrale.
Dal 1991 vi occupate di violenza sulle donne; nonostante non vi siano statistiche nella maggior parte dei casi si tratta di violenza domestica. E la risposta della legge rimane inadeguata. Senza una prova della violenza fisica subita (e il certificato di un medico non è sufficiente) le donne non possono chiedere il divorzio ma accettare un divorzio unilaterale quindi costrette a pagare i danni e le spese legali. Nessuna legge poi criminalizza lo stupro coniugale. Puoi dirci qualcosa in più sul vostro centro?
Nel 1993 abbiamo aperto un centro di ascolto e accoglienza, in realtà una stanza nella nostra sede, dove riceviamo le donne vittime di violenza. In quell’occasione organizzammo un seminario internazionale sul tema, ma il manifesto dell’evento fu proibito. Il presidente, che allora ancora ci riceveva, tolse la censura sul manifesto. Abbiamo tenuto il seminario ma quando sono statti redatti gli atti, anche il libro è stato censurato e proibito. C’è stato detto che il problema della violenza sulle donne in Tunisia non esiste. Ma noi abbiamo continuato. Oggi anche l’Unione Nazionale delle Donne (filogovernativa) ha aperto un centro di accoglienza: non c’è però personale formato e si tratta di staff amministrativo quando invece tutti sanno che le donne arrivano proprio durante le festività o nei finesettimana; alla fine la maggior parte delle donne viene reindirizzata al nostro centro. Diamo loro sostegno psicologico, legale e sociale. Dal 2007 lo Stato ha finalmente ammesso, “la violenza in Tunisia esiste” e ha iniziato un piano nazionale di prevenzione: allora siamo state consultate per le nostre competenze, abbiamo chiesto però che sia lo Stato a occuparsi dei centri di accoglienza, perché crediamo che sia il ruolo delle istituzioni. Da allora tutto e fermo e del piano non abbiamo più sentito parlare. Noi non abbiamo le risorse per ospitare fisicamente le donne come in uno shelter, e non siamo nemmeno d’accordo. All’inizio le accoglievamo nelle nostre case, chi di noi poteva, o in un albergo convenzionato quando avevamo più fondi. Ma pensiamo che lo Stato, come in altri paesi quali il Marocco, debba assumersi le proprie responsabilità.
Le donne parlano apertamente di violenza domestica?
Della violenza subita le donne tunisine hanno imparato a parlare apertamente. L’unica cosa di cui non parlano è lo stupro coniugale. Dicono mio marito mi ha picchiata e poi ha dormito con me, ma non mio marito mi ha violentata. Così come non parlano apertamente dell’incesto. Quello resta loro nella carne. Un giorno, anni dopo, arrivano nel nostro centro e parlano della violenza domestica che subiscono oggi e allora spesso riaffiora il ricordo dell’incesto.
Così la partecipazione delle donne alla vita politica del paese diventa una prova di forza.
La Tunisia è il paese delle contraddizioni. Abbiamo il migliore statuto del mondo arabo in termini di diritti per le donne, ma lo stato si “è appropriato” della questione femminile, le decisioni vengono emanate dal governo senza che le associazioni di donne indipendenti vengano consultate. Non abbiamo libertà di autonomia né di espressione e questo fa si che anche gli spazi pubblici dove potevamo intervenire si siano ridotti sempre più. E questo anche perché da sempre abbiamo chiesto che la questione femminile e quella della violenza sia una questione politica, che deve uscire dalla sfera privata e essere discussa nella sfera pubblica.
Lascia un Commento