Lunedi, 23/05/2011 - Ciò che emerge dal Rapporto Istat già lo sapevamo per esperienza diretta: nel nostro paese la rete di aiuto e cura informale si regge sulle donne. Sono loro a svolgere i due terzi del totale delle ore svolte, ben 2,1 miliardi l'anno. Una lunga catena di numeri alla fine della quale viene a galla l'emergenza di una società che si sostiene prevalentemente sulla parte femminile che è sempre più schiacciata tra lavoro produttivo e riproduttivo. E la rete di parentela e famiglie allargate che prima garantiva una divisione del lavoro produttivo (sempre tra donne!!!) adesso si è trasformata, seguendo le modificazioni demografiche, ed è sempre più stretta. Ogni 'care giver' (cioè persona di 14 anni e più che fornisce aiuto gratuito a persone non coabitanti) ha meno persone con cui condividere l'aiuto nella rete di parentela, meno tempo da dedicare agli aiuti e un maggior numero di individui bisognosi di aiuti per un periodo di tempo più lungo. La catena di solidarietà femminile tra madri e figlie su cui si è fondata la rete di aiuto informale, rischia di spezzarsi. Le donne occupate con figli sono infatti sovraccariche per il lavoro di cura all'interno della famiglia e le nonne sono sempre più schiacciate tra cura dei nipoti, dei genitori anziani non autosufficienti e dei figli adulti. Le persone che si attivano nelle reti di solidarietà, fornendo aiuto gratuito a persone non coabitanti sono aumentate in misura significativa: dal 20,8 per cento del 1983 al 26,8 per cento del 2009. Di contro sono diminuite le famiglie aiutate (dal 23,3 per cento al 16,9), soprattutto tra quelle con anziani (dal 28,9 al 16,7 per cento). Le donne hanno condiviso di più l'aiuto con altre persone e diminuito il tempo dedicato agli aiuti (da 37,3 nel 1998 a 31,1 ore al mese nel 2009), perchè ne hanno sempre meno a disposizione. È sceso anche il tempo dedicato dagli uomini agli aiuti (da 26,4 a 21,5 ore al msee). Si è invece innalzata l'età media delle persone che si attivano nelle reti di solidarietà, da 43,2 anni nel 1983 a 50,1 nel 2009. Nello stesso periodo i care giver sono aumentati soprattutto nella classe di età 65-74 anni (da 20,2 per cento a 32,7) e fra gli ultrasettantacinquenni (da 9,3 per cento a 16,3); sono più presenti all'aumentare del titolo di studio: 34,7 per cento tra i laureati contro il 22,3 per cento tra chi ha conseguito al più la licenza elementare.
Lavoro
Critica la situazione delle donne nel mercato del lavoro. Secondo il rapporto Istat ben 800.000 donne, con l'arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perchè licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. Un fenomeno che colpisce più le giovani generazioni rispetto alle vecchie e che appare particolarmente critico nel mezzogiorno, dove “pressochè la totalità delle interruzioni può ricondursi alle dimissioni forzate”. Nel 2008-2009, si legge nel documento, circa 800.000 madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state messe in condizione di doversi dimettere in occasione o a seguito di una gravidanza. Si tratta dell'8,7% delle madri che lavorano o hanno lavorato in passato e che sono state costrette dalle aziende a lasciare il lavoro, magari firmando al momento dell'assunzione delle 'dimissioni in bianco'. A subire più spesso questo trattamento, si legge nel rapporto, non sono le donne delle generazioni più anziane ma le più giovani, 6,8% contro 13,1%, le residenti nel mezzogiorno (10,5%) e le donne con titoli di studio basso (10,4%). Una volta lasciato il lavoro solo il 40,7% ha poi ripreso l'attività, con delle forti differenze nel paese: su 100 donne licenziate o indotte a dimettersi riprendono a lavorare il 15% nel nord e il 23% nel sud. Il ruolo fondamentale all'interno della famiglia, svolto dalle donne, condiziona fortemente la possibilità di lavorare. Nel 2009 più di un quinto delle donne con meno di 65 anni, che lavorano o hanno lavorato, ha interrotto l'attività per il matrimonio, una gravidanza o altri motivi familiari. La quota sale al 30 per cento tra le madri e nella metà dei casi l'interruzione è dovuta alla nascita di un figlio. Le interruzioni del lavoro per motivi familiari diminuiscono passando dalle generazioni più anziane alle più giovani per il calo di quelle dovute al matrimonio (dal 15,2 per cento delle donne nate tra il 1944 e il '53 al 7,1 per cento di quelle nate dopo il 1973). Resta, invece, pressochè stabile tra le diverse generazioni (intorno al 15%) la quota delle donne che interrompono l'esperienza lavorativa in occasione della nascita di un figlio. Le interruzioni prolungate, vale a dire le uscite dal mercato del lavoro che continuano dopo cinque anni, sono molto più elevate nel Mezzogiorno (77,1%, contro il 57,2% nel Nord-est). Oltre la metà delle interruzioni del lavoro per la nascita di un figlio non è il risultato di una libera scelta. Sono infatti circa 800 mila (pari all'8,7 % delle donne che lavorano o hanno lavorato) le madri che hanno dichiarato di essere state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere, nel corso della loro vita lavorativa, a causa di una gravidanza.
Retribuzioni
L'occupazione femminile rimane stabile nel 2010, ma peggiora la qualità del lavoro e rimane la disparità salariale rispetto ai colleghi uomini (-20%). Cresce inoltre il part time involontario e aumentano le donne sovraistriute. L'occupazione qualificata, tecnica e operaia, secondo quanto si legge è scesa di 170 mila unità, mentre è aumentata soprattutto quella non qualificata (+108 mila unità). Si tratta soprattutto di “italiane impiegate nei servizi di pulizia a imprese ed enti e di collaboratrici domestiche e assistenti familiari straniere”. Un secondo fattore di peggioramento è dato dalla crescita del part time (+104 mila unità rispetto a un anno prima), “quasi interamente involontaria e concentrata nei comparti di attività tradizionali” (commercio, ristorazione, servizi alle famiglie e alla persona) che presentano orari di lavoro poco adatti alla conciliazione con i tempi di vita. Permane inoltre tra le donne una maggiore diffusione del lavoro temporaneo: 14,3% contro il 9,3% degli uomini. Un ulteriore aspetto della qualità del lavoro concerne la disparità salariale di genere, che rimane notevole nel 2010. Infatti, la retribuzione netta mensile delle lavoratrici dipendenti è in media di 1.077 euro contro i 1.377 euro dei colleghi uomini, in termini relativi circa il 20 per cento in meno. Il divario si dimezza considerando i soli impieghi a tempo pieno (rispettivamente, 1.257 e 1.411 euro). Un altro indicatore del “peggioramento della qualità del lavoro femminile -spiega l'Istat- riguarda la crescita delle donne sovraistruite, ovvero quelle con un lavoro che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta”. Fra le laureate, il fenomeno della sovraistruzione interessa il 40% delle occupate (31% tra gli uomini) e abbraccia tutto il ciclo della vita lavorativa. La partecipazione delle donne al mercato del lavoro, confrontata con il resto dell'Europa, continua a essere “molto più bassa”. Nel 2010 il tasso di occupazione femminile si è attestato al 46,1%, 12 punti percentuali in meno di quello medio europeo. L'indicatore è al 55,6% per le madri (68,2% il corrispondente tasso europeo). Quando il minore ha un'età compresa tra i sei e i dodici anni il tasso di occupazione è pari rispettivamente al 55,8% e al 71,4%. La difficile situazione del Mezzogiorno spiega buona parte delle distanze tra Italia ed Europa: sono circa 3 su 10 le donne occupate nel Mezzogiorno contro le quasi 6 nel Nord; il tasso di inattività si attesta al 63,7% (39,6% nel Nord) e il tasso di disoccupazione è oltre il doppio di quello delle donne del Nord (15,8% rispetto a 7,0%). Rispetto agli altri paesi resta inoltre notevole il divario sull'utilizzo del part time, nonostante la forte crescita registrata in Italia negli ultimi anni. Nel 2009 la quota di lavoratrici a tempo parziale (25-54 anni) oscilla fra il 21,6% delle donne senza figli al 38,3% di quelle con tre o più figli; nell'Ue dal 20,9% al 45,9%. Le distanze sono ancora più estese se il confronto è effettuato con Paesi Bassi, Germania e Regno Unito. Inoltre, la quota di donne italiane con part time involontario è più che doppia di quella dell'Ue (nel 2009, 42,7% contro 22,3%).
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