Movimenti / 5 - Quinto appuntamento della riflessione su reti e associazioni femminili e femministe. L’esperienza di Napoli narrata da chi contribuisce ad un’altra storia
Stefania Cantatore Lunedi, 22/11/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2010
I tentativi di dare forma alla soggettività politica delle donne a livello mondiale sono oggetto di sforzi ed iniziative non sempre trasparenti e sincere.
E l’Italia è mondo. Di questi tentativi non è qui che vale la pena di dar conto, anche perché si aprirebbero inutili polemiche e sicuramente si urterebbero le sincere sensibilità di speranzose, ignare ed appassionate seguaci di quei tentativi.
Quel che sappiamo è che di fronte alla persistenza dei motivi che sostengono la “necessità” della politica femminista-femminile autonoma ed auto-organizzata il sistema partitico e politico in generale si difende, perché no in modo a tratti sfacciatamente misogino, sempre con la dovizia dei mezzi mediatici e “legali” di cui dispone.
C’è insomma un conflitto permanente tra donne ed ordine costituito, che in molte chiamiamo patriarcale.
Il movimento delle donne c’è, facendo bene attenzione a non confondere e sovrapporre la dimensione della piazza alla “prova della sua esistenza”, c’è e naturalmente se si parla della sua organizzazione si deve stare bene attente a parlare di “organizzazioni” perché sono tante.
Tante e, come si diceva prima, non tutte con gli stessi obiettivi, e non tutte con la stessa trasparenza.
Il tormentone “le femministe dove sono?” è domanda che dovrebbe essere letta nella sua essenza “dove sono le donne disposte a ripetere le nostre parole, e dopo averlo fatto, ritornare a fare da cassa di risonanza ai capi?” Rispetto alla seconda formulazione complessa, naturalmente è più semplice usare la prima ormai destinata a restare senza risposta, almeno dalle donne che fanno politica autonoma.
Ma c’è un’altra domanda che invece nasce dal corpo stesso del femminismo. È una domanda che viene dal pensiero complesso sulla condizione femminile: “perché le donne, essendo portatrici di una generalizzata condizione di illibertà, non rivendicano tutte insieme il loro riscatto?” L’utopia di una valanga femminile che sovverte l’ordine ingiusto delle cose, per la sua sola discesa in piazza, in una sorta di presidio pacifico permanente, se è una legittima aspirazione, non si può dire che abbia avuto effetti benefici sulla consapevolezza del cambiamento fin qui ottenuto dalle donne sia nel paese che a livello mondiale. Lo sguardo lungo non deve far perdere di vista ciò che è sotto i nostri occhi.
Quello che è sotto i nostri occhi, ieri ed oggi, è che nessuna, proprio nessuna vuole più essere posta di fronte all’alternativa tra sottomissione e morte. Mainstreaming, empowerment, sono parole spesso oscure anche a chi le cita, ma quello che c’è prima, rimanere vive, non ha bisogno di spiegazioni.
La semplicità del “rimanere vive e libere”, l’immediatezza con la quale viene compresa la differenza tra ciò che si vive e ciò che invece sarebbe giusto e desiderabile, ha fatto irruzione, spiazzando chi, da donna, considerava la violenza un tema non disponibile alla contrattazione con le Istituzioni, ed in più mortificante per essere il punto di visibilità di una debolezza. Ma soprattutto ha spiazzato la politica che pensava ad un tema “sociale” e non di programmazione di atti governativi, contando su una sorta di affossamento delle responsabilità pubbliche.
Chi pensa ad un movimento delle donne diviso ed autoreferenziale, parla del passato, perché dopo una fase nella quale sembrava inconciliabile una visione emancipazionista fatta di inclusioni attraverso comitati e consulte, ed un’altra propositiva di una contrattazione frontale col potere, proprio intorno al femminicidio sempre di più si consolida la più ampia condivisione mai realizzata tra quelle che restano anime differenti.
Questo fa capire che il tema dell’unità e del suo contrario, riferito al movimento delle donne è quanto mai strumentale ad una politica partitica, che vorrebbe le donne divise, o unite su temi di politica generalista. Certo a questo punto c’è da dire che, giustamente, in molti segmenti del femminismo la voglia di progettare tutto emerge in modo prepotente, ma non è di questo che stiamo parlando.
Stiamo parlando della necessità che le donne hanno di far parlare una lingua reciprocamente comprensibile alla loro politica, alla loro volontà di pesare sul futuro.
Questo è un obiettivo che è stato raggiunto sul femminicidio e sulla 194 (in questo caso più in passato che oggi).
La politica non di genere ci vuole divise e ci fa apparire tali per le nostre differenze. Si guarda bene dal parlare di ciò che condividiamo. Ci dice deboli, mentre sappiamo di essere forti.
Siamo forti quando lo siamo e dove lo siamo, in virtù dell’esserci sapute prendere le nostre responsabilità, di guardare con rispetto alle differenze, riuscendo a mettere in primo piano, con un linguaggio essenziale e vero, le aspirazioni comuni (quando parlo di linguaggio essenziale e vero, non parlo del lessico emotivo e generico del populismo imperante, ma del linguaggio fedele agli scopi di ciò che si vuole, non ingannatore, che magari va spiegato ma che alla fine è riconosciuto da tante, perché interpreta il diritto a dire ciò che è senza le banalizzazioni di un linguaggio corrente, costruito sull’idea dominante che “una donna è meno”).
Se è vero che a volte anche noi commettiamo l’errore di esaltare le divisioni, per esaltare quella che noi singolarmente individuiamo come “la verità”, dobbiamo ricordarci che quella verità può essere un valore solo se entra in un circuito di elaborazione comune. E le vie per fare questo sono osteggiate dalla cultura imperante, ma infinite e non sempre prevedibili. Un carpe diem femminista.
Nel frattempo dobbiamo ricordarci che di fatto ognuna e tutte esercitiamo un ruolo dirigente, che dobbiamo saper ben distinguere da quello maschile: dirigere non è né imporre né comandare.
Dirigere per le donne è un verbo che va interpretato nella sua essenzialità: dirigere verso le altre un pensiero e un’intenzione aprendo la strada ed il terreno per la condivisione. Non mediazione bassa, ma incontro creativo, per un proposta comune spesso più alta della verità che tutte pensiamo di avere in tasca.
Dico questo perché mi è successo, di essere partecipe di piccoli-grandi eventi collettivi.
Non è stato semplice, ma è stato meno difficile del previsto costruire eventi come “194 parole per la libertà”, o realtà come “il cartello delle donne napoletane contro le violenze”, perché siamo andate nel senso del protagonismo “essenziale delle donne”. Certamente molto lavoro, che però ci rende più facile il presente, almeno, libero da sospetti reciproci.
Sospetti e pregiudizi, sempre dietro l’angolo, a volte nei nostri angoli interni, che però abbiamo imparato, o almeno l’ho imparato io, a riconoscere come nemici diretti da chi ci vuole male, e che punta a farci dire quanto siamo brave noi e quanto poco le altre.
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