Venerdi, 20/06/2014 - Nel fiume di debordante letteratura di consumo e di cassetta ho scoperto un romanzo appena edito (Il paese senza nome di Lucianna Di Lello, Carabba editore) e ne sono rimasta attratta e stupefatta dalla ricchezza espressiva, e dalla inesauribile invenzione di situazioni e snodi affabulatori che mi hanno coinvolto con una girandola di eventi, intrecci, e personaggi descritti con la capacità di chi sa penetrare nell'anima, nella mente e nel cuore altrui ,ma sa cogliere anche il lato grottesco delle situazioni. Pur in questo intreccio di eventi e di rapporti umani, l’Autrice, dimostra la sua abilità di non perdere il filo del suo complesso romanzo, che con rapidi cenni potrei riassumere così: Giuditta, da giovanissima, ha amato il coetaneo Jear, ma delusa dal suo atteggiamento di bellimbusto e di dendy alla Byron, tenterà il suicidio. Per volontà del padre sposerà il più maturo Ferdinando e dall’Argentina, dove è nata e ha trascorso la sua adolescenza e giovinezza, si trasferirà nel paese degli avi, “un paese senza nome”, si suppone nel sud d’Italia, ma il matrimonio sarà il rifugio nostalgico del suo passato e dell’amore perduto. Un triangolo amoroso di cui solo lei è a conoscenza, vivendo una doppia vita, quella reale e quella sognata, imprigionata nel neghittoso conforto della solitudine e del ricordo dell’amato. Il presente è per lei il sogno dell’amore perduto e allo stesso tempo il piacere notturno coniugale, che la rapisce con una sensualità allucinata e imprevista. “I pensieri al vento e il corpo in voluttà” suggerisce la voce narrante, che è quella di Lu Zenaide, aspirante scrittrice, discendente di Giuditta. Ma il romanzo è molto più di questa esile traccia e tanti sono i personaggi intrecciati in altrettante vicende. La storia - scritta da questa discendente “per intrattenere se stessa e tenere a bada la vita”, e poi riscritta da una curatrice, dietro la quale si cela Lucianna Di Lello stessa, che sembra a volte ansiosa di diventare “personaggio” del proprio romanzo- è scritta in una prosa ricercata e preziosa, ricca di artifici, di criptocitazioni - tuttavia perfettamente individuabili da chi si è nutrito di letteratura -, digressioni da metaracconto, allusioni a fatti storici risorgimentali, descrizioni di ville con parchi che sprigionano fragranze inebrianti, di luoghi ameni e ridenti, e molto altro ancora. Ma ciò che può interessare e affascinare anche i lettori più esigenti è la disinvoltura di uno stile in continuo rimescolamento di livelli, sia del lessico che della sintassi, ma con così intensa naturalezza da apparire involontario, quasi a rappresentare il materiale eterogeneo di cui è composta l’esistenza umana. Godibile è il capitolo XXI intitolato “Lo fo per piacer mio non all’onor di Dio”, nel quale le notti d’amore di Giuditta sono descritte come “strapazzate amatorie”, i congiungimenti carnali sono vissuti come “doveri coniugali”, “incombenze notturne”, ma allo stesso tempo l’atto sessuale, subìto come qualcosa di animalesco, le eccita i sensi. Nulla concede però l’A. al corrivo turpiloquio che spesso è solo il velo di una penosa elementarità di mezzi espressivi. Forse qualcuno potrà criticare l’eccessivo inserimento di citazioni e digressioni, ma queste sono così parte integrante del romanzo da spingermi a controbattere che non sempre la “misura” e il perfetto equilibrio sono caratteri positivi di ogni scrittura o comportamento umano, come riteneva il grande poeta latino Orazio. Forse è più giusto ritenere che qualche balzo “sopra le righe” sia un complemento fecondo dell’abituale compostezza ed eleganza di ogni vero scrittore.
Maria Pellegrini
articolo pubblicato nel sito della Libreria universitaria
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