Parità/ Intervista a Isabella Rauti - La conciliazione non è un ‘affare di donne’, riguarda le società ed i modelli di welfare
Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2004
In questo avvio della sua attività ha avuto modo di fissare delle linee guida e di stabilire le priorità su cui intende operare?
Siamo impegnate su un programma di lavoro intenso basato su obiettivi definiti. Subito dopo la nomina si è reso necessario riattivare il funzionamento della rete nazionale e i suoi rapporti istituzionali. Inoltre, attraverso convenzioni con ISFOL e Italia Lavoro, ci siamo attivate per la creazione di un Centro Studi e Documentazione e per l’organizzazione di seminari formativi. L’altro fronte su cui siamo concentrate è un progetto di comunicazione sulla figura ed il compito della Consigliera di Parità che, dobbiamo ricordare, è un pubblico ufficiale e può intervenire in casi di discriminazione con azioni in giudizio. La denuncia della disparirà salariale e l’emersione del sommerso femminile, la conciliazione dei tempi del lavoro fuori casa e del lavoro di cura, l’attuazione della legge 30/2003 sono le priorità che abbiamo individuato accanto alla responsabilità sociale delle imprese in relazione alla ricaduta sul lavoro femminile.
A suo parere in questi anni è stato sufficientemente utilizzato il ruolo delle Consigliere di Parità e come pensa lei di valorizzare questa figura?
Il nostro ruolo è stato significativamente rafforzato nel 2000 con il decreto 196, che completa la legge 125/91 definendo ulteriormente il ruolo delle consigliere, attribuendo loro numerosi compiti ed stanziando una dotazione economica. Oltre che diffondere la conoscenza del servizio e delle funzioni svolte e portare le donne negli uffici delle Consigliere, vorrei che le queste fossero presenti nei luoghi di lavoro per verificare – con l’aiuto delle istituzioni preposte e delle forze sindacali – le condizioni effettive delle lavoratrici ed i casi di discriminazione diretta o indiretta. Insomma la mia è una visione ‘militante’ di questa figura e vorrei rendere la rete un vero braccio operativo, attivo e riconoscibile nel territorio.
Lei ritiene che il mondo dell'imprenditoria italiano sia complessivamente adeguato - tanto culturalmente quanto a livello di strutture e strategie - a tenere il passo con le sfide che impongono i mutati scenari del mercato? Perché le risorse stanziate a favore delle imprese attraverso norme che sostengono l'occupazione femminile sono così scarsamente utilizzate?
La globalizzazione dell’economia sta ridefinendo gli orizzonti entro i quali agiscono tutti i soggetti imprenditoriali che da un lato vedono aprirsi le opportunità di nuovi mercati e dall’altro subiscono la crescita della concorrenza mondiale. E’ una sfida che offre grandi opportunità ma che comporta anche grandi rischi per il sistema delle imprese in generale, ed in particolare per le piccole e medie e per l’imprenditoria femminile. La legge 125/91, la 53/2000 (legge sui congedi parentali) e le altre azioni positive delineano un quadro normativo piuttosto ampio e generoso, si tratta di diffonderne la conoscenza e di contribuire ad una modificazione culturale che aiuti lavoratori e datori di lavoro ad utilizzare i vantaggi che potrebbero derivare dalla loro corretta attuazione. Altre considerazioni, invece, richiedono i principi introdotti dalla legge 30/ 2003 e dal decreto attuativo 276, di cui dovrebbe essere colto lo spirito: una corretta attuazione della flessibilità può rappresentare una convenienza reciproca sia per i datori di lavoro che per le lavoratrici, mentre un’interpretazione distorsiva ci riporterebbe ad una situazione che l’Italia ha conosciuto. Non dimentichiamo, infatti, che quando si spacciava per flessibilità la precarietà le donne, pur di non rimanere disoccupate, accettavano quelle che in realtà erano una forma di segregazione professionale.
Perché a suo parere ancora esistono e persistono tante discriminazioni nei confronti delle donne nel mondo del lavoro?
Le donne scontano un ritardo dell’ingresso nel mercato del lavoro e subiscono ancora discriminazioni nell’accesso al lavoro, nel mantenimento del lavoro dopo la maternità, nelle progressioni di carriera e nelle retribuzioni. La legislazione di parità considerata nel suo complesso ha cercato di sostenere le donne, ma manca un costante monitoraggio ed una valutazione dell’attuazione delle norme, così come manca anche un poco ‘lo spirito di denuncia’ dei casi di discriminazione. Complessivamente resta da portare a compimento una rivoluzione culturale di costume e di mentalità. Un’indicazione positiva è offerta dalla Direttiva Europea 2002/73 (riguardante discriminazioni dirette ed indirette sia nel lavoro subordinato che per quello autonomo) relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la formazione, la promozione professionale e le condizioni di lavoro, il cui recepimento ci farebbe compiere un sostanziale passo in avanti.
In che modo la società può aiutare le donne a vivere senza contraddizioni l'esperienza della maternità e senza compromettere il lavoro ed eventualmente la carriera?
Purtroppo la maternità continua a rappresentare un ‘fattore di espulsione’ delle donne dal mondo del lavoro, o comunque un fattore ostativo. Le più recenti rilevazioni in materia parlano di circa un 20 % delle madri che lascia il posto di lavoro dopo la nascita del primo figlio. Questo perché la maternità è stata privata del suo valore sociale ed il suo onere è ricaduto quasi interamente sulle donne e sulle famiglie. La conseguenza è che la procreazione non viene vissuta come scelta autentica perché si scontra con la carenza di servizi per la prima infanzia e con la scarsità di politiche organiche per la famiglia. Resta inoltre irrisolto il nodo della conciliazione che, anziché settorialmente, deve essere affrontato in modo sistemico, ossia come un’insieme integrato di politiche attive del lavoro, di politiche sociali, di politiche del territorio e come intreccio di interventi sugli aspetti strutturali ed organizzativi del sistema italiano. Inoltre occorre affermare il principio secondo cui la conciliazione non è un ‘affare di donne’, ma riguarda le società ed i modelli di welfare che non possono chiedere alle famiglie, alle reti parentali e “ai nonni” di fare da ammortizzatori sociali e da erogatori di servizi’. In Itali oggi la conciliazioni più diffusa è ancora quella che gli esperti definiscono ‘soggettiva e individuale’ e che è basata sui funambolismi delle donne che cercano di rendere compatibili le diverse funzioni che esercitano, mentre l’obiettivo è quello di raggiungere una conciliazione ’oggettiva e di sistema’ che declini le nuove modalità sempre più flessibili offerte dal mondo del lavoro. Inoltre sappiamo che il lavoro di cura resta quasi totalmente affidato alla donna e che la conciliazione non si fa se il carico familiare non viene equamente condiviso.
Quale è la sua opinione circa la posizione delle donne, oggi, nel mondo del lavoro?
Oggi la situazione è caratterizzata da alcuni paradossi e contraddizioni, da luci ed ombre tra possibili ulteriori acquisizioni ma anche tra rinunce e rischi. Nonostante il costante incremento dell’occupazione femminile, i tassi della partecipazione delle donne al lavoro in Italia sono più bassi rispetto alla media degli altri Paesi europei e sono drammaticamente lontani dall’obiettivo del 60% fissato a Lisbona per il 2010. Accanto allo scarto percentuale e quantitativo restano molteplici le aree di criticità dell’occupazione femminile, anche con disomogeneità tra il nord e il sud del Paese. La riforma del mercato del lavoro sta mutando gli scenari e le forme di flessibilità possono rappresentare un’opportunità solo se diventano una responsabilità sociale condivisa. E’ interessante la recente analisi del CNEL (Rapporto del mercato del Lavoro 2003) in cui è sottolineato l’incremento costante della presenza delle donne nel mondo del lavoro (si parla di ‘invasione di genere’) e contemporaneamente registrato il ritardo nell’assecondare il cambiamento che l’aumento della presenza femminile imprime alla società. Condivido il richiamo del CNEL sulla necessità di celebrare un ‘patto sociale della conciliazione’ che si riferisce a l’interazione di tre sistemi: le imprese (che regolano le forme di organizzazione di lavoro), le famiglie (al cui interno si definiscono le forme di condivisione del lavoro di cura) e la società (che imposta le modalità di erogazione di servizi).
Ma come attuare tutto ciò?
La conciliazione si attua con un modello di welfare attivo e comunitario che non accetta atteggiamenti di ‘protezione sociale’ ma promuove uno sviluppo socio economico giusto ed equilibrato che riduca le sperequazioni e realizzi un’effettiva parità di genere. Mi pare condivisibile la definizione europea che include le donne nei cosiddetti “gruppi vulnerabili”, ma non ritengo corretto definirle soggetti deboli e quindi da gestire alla stregua di una categoria protetta. Siamo in una fase di transizione socioeconomica assai delicata che richiede di evitare sia facili ottimismi sia analisi apocalittiche. L’importante è non abbassare la soglia di attenzione.
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