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Un non-modello per superare gli stereotipi

Un non-modello per superare gli stereotipi

Media/ TV digitale - Continua il dibattito sulla rappresentazione delle donne in tv aperto dal progetto di Ancorpari

Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2005

L’orizzonte culturale
Nel mondo globalizzato anche la produzione televisiva è divenuta merce di scambio, prodotto in vendita. Il potenziale innovativo sarebbe prorompente, ma gli scambi sono sinora rimasti arginati nell’ambito del mondo occidentale ed industrializzato con scarsi benefici culturali. Basta anche una sommaria osservazione della programmazione televisiva nazionale per rilevare la sostanziale omogeneità dei contenuti e degli schemi narrativi e un livello medio dei prodotti che si attesta su un basso profilo. E’ all’interno di tale contesto che si pongono oggi le questioni di genere nei media, la rappresentazione delle donne in televisione e l’analisi degli stereotipi proposti. Se manca la possibilità di sperimentare, di utilizzare linguaggi nuovi e formule innovative come e dove è possibile elaborare contenuti più attenti a temi socialmente rilevanti? In quali sedi questi argomenti possono essere proposti al pubblico?
In tal modo si riducono anche gli spazi di affermazione di modalità espressive rispettose dell’immagine della donna, così come non può essere affermata una visione di genere corretta e tesa a far passare idee e formule che siano fedeli alle molteplici realtà femminili.

Tempi, linguaggi e qualità
La tv generalista, nel suo complesso e tranne alcune felici eccezioni, si caratterizza per la povertà di contenuti e per gli scarni spazi in cui poter inserire specifici flussi informativi o particolari messaggi di valenza culturale. L’appiattimento su schemi relativamente fissi e scontati svilisce il potenziale critico ed esperienziale di interi settori e della miriade di realtà associative che agiscono attivamente nella società e che arricchiscono il tessuto sociale nel territorio. La questione che si pone con forza è se esistono nel concreto spazi per una televisione di qualità, posto che accanto ai problemi di contenuti non può essere trascurata la questione della loro semplificazione, giocata sia nel messaggio enunciato sia sul piano delle immagini proposte.
Si pongono al proposito alcune questioni. Messaggi culturalmente complessi, costretti in flussi striminziti, poveri di spazi e tiranni nei tempi concessi, riescono a raggiungere effettivamente lo spettatore? In che modo sono, poi, decodificabili? Come sono conciliabili, se lo sono, le problematiche legate alle questioni di genere con i tempi, i ritmi ed il linguaggio televisivo? La compressione del messaggio ne richiede la semplificazione, che può degenerare in banalizzazione. Tale idiosincrasia tra ritmi i televisivi e le complessità/pluralità dei messaggi pone una questione forte e di non facile gestione poiché necessariamente mette in discussione le convenzioni narrative consolidate e condivise.
In punto di equilibrio tra la corretta informazione, la sintesi dei tempi e la non banalizzazione dei messaggi appare una tra le questioni più complesse che i media si trovano a dover affrontare, in una fase in cui la moltiplicazione dei canali di comunicazione apre nuovi scenari e in parte rompe schemi consolidati dei linguaggi mediatici. Anche quando, in alcune trasmissioni o loro segmenti, si concedono spazi ad informazioni “altre” o laddove sono utilizzati schemi tradizionali per proporre temi o visioni non rituali, vi sono a monte filtri che determinano una qualche distorsione dei messaggi. La modalità con cui oggi è affrontata la riflessione teorica sull’immagine della donna nelle varie tipologie di trasmissioni televisive, all’interno di questa cornice, può rappresentare il punto di snodo per aprire nuovi spazi informativi ed attivare nuove modalità di relazione tra mezzo informativo e pubblico, in un contesto in cui quest’ultimo non sia percepito in posizione passiva e costretto ad accettare acriticamente prodotti confezionati immaginando soggetti/medi disponibili a recepire prodotti/medi.
La tv digitale, attraverso i servizi integrativi e le possibilità di interattività che promette, potrà costituire in futuro un luogo di accoglimento di istanze del pubblico, cui sarà permesso di contribuire in modo diretto e senza intermediazioni a nuove elaborazioni, a sperimentazioni e a costruire prodotti meno generici e più rispondenti ai gusti e alle aspettative. La spinta propulsiva verso l’incremento di canali tematici produrrà frammentazioni sia nelle produzioni che nelle utenze. Non si potrà più semplicemente parlare genericamente di ‘pubblico’, ma immaginare una pluralità di target ai quali andranno rivolti messaggi costruiti con competenze di alto profilo. Al prevedibile moltiplicarsi di pubblici e di offerta potrebbe corrispondere un innalzamento anche del livello qualitativo richiesto dai canali tematici, che si preannuncia saranno numerosi.
Difficile, oggi, intravedere i contorni del futuro scenario, ma sembrerebbe ipotizzabile una progressiva destrutturazione dei modelli con una conseguente e necessaria non omogeneità nei canoni di comunicazione che, attraverso la compresenza di stili narrativi e contenuti, avrebbe l’effetto di una totale deregulation con inevitabili conseguenze anche sul fronte degli stereotipi.

Dallo stereotipo agli stereotipi
Lo stereotipo semplifica ciò che è complesso, fornisce soluzioni preconfezionate e facilita il fluire dei pensieri elidendo le criticità. Per questo lo stereotipo è utilizzato: è rassicurante e facilita il lavoro nei media. La lettura critica di genere nei programmi televisivi è passata dalla contestazione di uno stereotipo femminile dominante (madre/moglie) degli anni sessanta e settanta a più articolate fasi successive.
La rappresentazione dell’immagine della donna registra un’evoluzione. E’ passata da uno schema rigido e unico ad una serie, talvolta contraddittoria, di proposizioni altrettanto rigide. Nella corposa tradizione di studi sugli stereotipi, ed in particolare su quelli che riguardano ruoli femminili, l’analisi sulle produzioni televisive si è concentrata sia sul tipo di stereotipo proposto sia sugli aspetti del ruolo che possono giocare i media nel consolidarli o modificarli. Nonostante la pluridecennale attività di analisi dei generi televisivi e il dibattito sulla persistenza di stereotipi in ordine ai contenuti e alle modalità di realizzazione dei prodotti, le modifiche registrate riguardano il moltiplicarsi dei cliché. L’effetto è quello di produrre una pluralità di stereotipi che, comunque, sviliscono la donna e le variegate possibilità del suo essere. In sostanza la difficoltà che appare ancora tutta da superare è quella di una rappresentazione che sia fedele alla realtà del vissuto quotidiano e che non scada nella banalizzazione o, peggio, nella volgarizzazione insita negli schematismi. Inevitabile mettere in relazione questo superficiale mutamento alla maggiore presenza di donne nelle strutture produttive. A questa maggior presenza, sia in video che nella filiera interna alle produzioni, come sappiamo, non corrisponde un incremento del potere decisionale. Anche nei media, come in altri campi, le donne non sono ancora riuscite ad affermarsi nella pienezza delle loro capacità e potenzialità e a proporre una visione di genere nelle varie trasmissioni. Anzi questa aumentata presenza sugli schermi, giocata troppo come elemento decorativo, ingenera confusione sul piano delle rivendicazioni. E’ molto facile osservare i tanti volti femminili che appaiono nei video, molto più complessa si presenta la possibilità di cogliere i messaggi più celati e sottili che porgono una donna in modo subalterno, dimesso e svalorizzato. Gli stereotipi persistono nei contenuti e nella realizzazione dei programmi, così come nella scelta dei soggetti di riferimento: alla sotto-rappresentazione dell’immagine femminile corrisponde il mantenimento di territori dominati intellettualmente dal pensiero maschile.
Occorre tenere presente, però, che è possibile una lettura alternativa di questa situazione. Stereotipi plurimi e contraddittori rincorrono e fotografano una donna in evoluzione. Una donna che racchiude in sé una pluralità di esseri e che concilia (o tenta di conciliare) i suoi vari essere ed agire nel pubblico e nel privato. E’ certo una donna che vive molte contraddizioni, ma che non le nasconde e che cerca di socializzarle. Dunque gli stereotipi, moltiplicandosi, cercano di rappresentare le sfaccettature di un soggetto complesso. Poiché le donne non possono rientrare più in un solo schema se ne creano di molteplici, cercando così di ingabbiare ciò che difficilmente lo consente perché è troppo ricco di sfumature e umanità. La televisione, strumento socialmente riconosciuto e unificante, entra in intimo contatto con lo spettatore raggiungendo tanto la sfera razionale quanto la sua parte più emotiva e/o emozionale. In questo senso è inevitabile la contaminazione con il comune sentire e l’influenza nel clima culturale. D’altra parte i media non possono rimanere insensibili a tante e nuove soggettività che bussano alla loro porta chiedendo visibilità e rispetto. Pensiamo alle minoranze etniche e religiose, al mondo della disabilità o alle questioni dell’intercultura. Le sollecitazioni sono costanti, molteplici e pressanti, ed ineluttabilmente sono destinate ad aprire varchi nel “fortino” e ad ottenere l’attenzione richiesta e gli spazi dovuti.

Il nuovo modello è un non-modello
Se sosteniamo che occorre superare il ricorso a stereotipi che non corrispondono alla realtà delle donne e se parimenti sosteniamo che i modelli sono plurimi e che qualsiasi riduzione a stereotipo corrisponde ad un impoverimento della realtà, conseguentemente dobbiamo sostenere che qualsiasi modello, per quanto attento e articolato, non può che risultare inadeguato.
In realtà qualsiasi tipo di semplificazione comporta un impoverimento e una sostanziale devianza rispetto alla complessità.
Potremmo, forse, cominciare a riflettere sulla possibilità di ricorrere a non-modelli, o meglio a lavorare concettualmente per l’assenza di stereotipi come via di uscita da qualsiasi forma di devianza rappresentativa.
Questo è un piano di riflessione che investe ampiamente i canoni dell’informazione, ma che presenta specificità se esaminato solo per gli aspetti connessi all’immagine femminile, al ruolo assegnato alle donne nella società, alle caratteristiche e peculiarità delle sue attività nel mondo del lavoro e nella società, nelle relazioni familiari e sociali.
Si tratta di affermare un principio, valido in tutti i campi dell’informazione, della non pertinenza di ruoli codificati rispetto alla realtà; nessun tipo di semplificazione o di riduzione a stereotipo in nessun settore o argomento può soddisfare l’odierna realtà. Come si fa ad iconizzare “tipi”socialmente riconoscibili? Non esiste l’immigrato, il musulamo o il cattolico, l’handicappato, il politico o il manager. Per non parlare, poi, degli inesistenti “tipi” sociali giocati rispetto a ruoli familiari. La famiglia tradizionale è in via di estinzione, nonostante il modello “latte-miele” proposto dai pubblicitari, e non è rimpiazzato da altre possibili situazioni-tipo, stante la continua evoluzione in atto. Che dire, poi, dei padri alla ricerca della possibile interpretazione di un ruolo all’interno della famiglia tradizionale e fuori, in modo solitario da neo-single. Raccogliere ed interpretare tali e tante frammentazioni e sfumature richiede professionalità rinnovate ed adeguate capacità di catturare le realtà cogliendole in tutte le sue molteplici sfaccettature e declinazioni. Di fronte a tanti nuovi non-modelli che la società contiene, la professionalità del giornalista e dell’operatore dell’informazione è costretta a rivedersi e riorganizzarsi sul piano etico, tecnico e dei contenuti.
Problema di formazione, certo, ma anche di necessità di sollecitare sensibilità ed attenzione ai soggetti nuovi e ai bisogni emergenti. Il mondo del Terzo Settore, ad esempio, in questo senso ha attivato da tempo tavoli di confronto sistematici con il mondo del giornalismo ed in particolare del giornalismo televisivo. Da anni i grandi media, e soprattutto la tv pubblica, sono impegnati in un serrato confronto con il mondo dell’associazionismo che, compatto, sollecita attenzione sui temi del sociale, chiede che vengano recepite le sue istanze, propone critiche ed avanza suggerimenti pretendendo spazi ed attenzioni per i soggetti sociali deboli. Obiettivo analogo potrebbe essere perseguito in modo sistematico con il mondo dell’associazionismo femminile, attraverso forme simili e con pari sistematicità. (1/continua)

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