Domenica, 20/01/2019 - L'altro ieri era il mio compleanno.
Appena spento l'eco degli auguri e dei brindisi, mi viene spontaneo riflettere al valore della vita e, di conseguenza, alla sua fine.
Non come concetto astratto a favore del quale siamo tutti - ma proprio tutti - schierati come un solo uomo (mi perdonino le femministe integraliste, "come una sola donna" non mi viene). No, parlo della mia, della tua, della sua vita. Come possibilità per un essere di compiere tutti gli atti necessari alla propria e altrui sopravvivenza, atti per la libertà dei quali è (deve essere) pronto a battersi fino a perderla (la vita).
Bene supremo, se rimaniamo nella teoria. Nella pratica ci sono vite meno e vite più.
Quelle, ad esempio, di 117 migranti annegati nel Mediterraneo sono vite meno. Non hanno nome, non hanno volto, quindi non possono essere pianti, perché le lacrime generiche non esistono: ci commuoviamo solo di fronte a una individualità, a un dettaglio (vedi pagella),
Ma anche quelle di un nero legato mani e piedi che è morto, lì sul marciapiedi di Empoli durante il fermo di Polizia.
Fermi!: non sto criticando le modalità: non so, non c'ero e non ho raccolto alcuna testimonianza diretta. Se gli agenti hanno sbagliato, pagheranno, ma non tocca a me stabilirlo, per cui do per acquisito che non avrebbero potuto fare diversamente.
Però la vita di quest'altro migrante senza nome - solo morto - vale meno, tanto che la sua fine è perfino stata irrisa dal Ministro dell'Interno.
Allora quali sono le modalità per morire, dimostrando di avere una vita che conta?
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