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Un matrimonio necessario

Un matrimonio necessario

Bioetica. Medicina tra tecnologia e rapporto umano. - Come evitare che la medicina veda spegnersi la sua anima?

Fiorato Silviano Martedi, 21/02/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2012

Bisogna essere stati coricati in un letto d'ospedale. Non basta immaginarlo, ma occorre esserci stati davvero, per una qualsiasi malattia; vedere i colleghi da sotto in su, premurosi e sorridenti, ma pur sempre “in piedi”, indaffarati, col fonendoscopio in una mano e i fogli dei tuoi esami nell'altra; anche se - tu lo sai bene e te ne consoli - sono degli amici che stanno trattando con te. E, alla fine, è proprio quel tocco di mano sul copriletto, nel lasciarti, che un poco ti solleva.

Essere “dall'altra parte”- hanno scritto non pochi medici - è un'esperienza fondamentale per capire come dovremmo (e dobbiamo!) comportarci nei riguardi dei “pazienti”. “Paziente” è un termine d'uso che attiene non solo al “patimento” della malattia, ma anche al “patire” il senso di sradicamento dalla vita abituale: una condizione di subordine ad eventi non voluti e a decisioni sul tuo futuro prese da altri, magari senza consultarti; anche se oggi c'è il consenso informato, sia pure non sempre esauriente.

Negli ultimi decenni ci si è resi sempre più conto che il rapporto medico-paziente non è solo una questione di etica professionale ippocratica, ma è una collaborazione ai fini della cura.

Questa presa di coscienza che avvicina il medico al malato ha trovato un ostacolo imprevisto: il progresso tecnologico della medicina.

Infatti l'invasione di campo delle tecniche diagnostiche rischia di trasferire la prima indagine clinica dalla semeiotica alla macchina. Se ne sono ben accorti i pazienti, che denunciano “non mi ha neanche guardato in faccia, aveva gli occhi fissi sul computer”. E se ne è accorta, soprattutto, al di fuori del campo medico, la regina della scienza, che si occupa dei principi fondamentali dell'esistenza umana: la filosofia. Proprio in una collana di studi filosofici è stata recentemente pubblicata un'ampia analisi nel merito: la rivista “Teoria” (Edizioni ETS) dedica un intero numero ad una “Critica della ragione medica”: sedici autori - filosofi, medici e antropologi - con la premessa di Adriano Fabris e Francesco Paolo Ciglia, affrontano non solo le questioni etiche ma anche le conseguenze pratiche del modificato rapporto medico-paziente. La linea retta di questo classico rapporto è diventata un triangolo, i cui vertici sono medico-strumenti-paziente. In questa triangolazione rischia di perdersi l'anima stessa della medicina, perché si confonde la cura della malattia con il prendersi cura del malato. Se qualcuno non capisse la differenza è segno che il rischio si è già concretizzato e che la tecnologia stessa sta diventando una malattia.

Oltretutto non dobbiamo dimenticare che la tecnologia a volte ci porta su false piste e che è necessario essere pronti a una interpretazione dei dati a confronto con una visione integrale della persona. Questa visione si appoggia sulla formazione del medico che allarghi i suoi confini culturali oltre il sapere strettamente scientifico: non per niente si dice che la medicina è un'arte e non una scienza esatta.

I futuri operatori sanitari, anzitutto i medici, per operare correttamente nei loro rapporti professionali con gli assistiti, dovranno avere una preparazione etica, psicologica ed antropologica, che tenga conto anche delle loro capacità di approccio; chi non avesse tali capacità o non riuscisse ad acquisirle dovrebbe indirizzarsi verso scelte alternative, pur restando nell'ambito della medicina; le strade aperte sono molteplici, dalla ricerca biologica all'attività laboratoristica e all'ampia gamma delle tecniche strumentali.

L'importanza della modalità di incontro ai fini della cura è ribadita dalla ricerca di una nuova disciplina, la psico-neuro-endocrino-immunologia, i cui dati dimostrano che vari sistemi del nostro organismo si attivano in rapporto al tipo di approccio tra il terapeuta e il paziente.

Questi principi hanno già trovato applicazione in alcune strutture sanitarie della città di Padova, dove sono stati avviati corsi biennali di educazione terapeutica. I corsi sono frequentati da medici di famiglia, da specialisti di prevenzione cardiologica e da infermieri, che imparano il modo di chiedere e ascoltare per “agire insieme”, fino al trasferimento pianificato delle competenze terapeutiche al paziente stesso.

Le difficoltà da superare per giungere a questo traguardo sono molteplici, considerata la realtà in cui operano i medici e l'atteggiamento non raramente difensivo degli assistiti.

Il medico troppo spesso soffre di un disagio bruciante - il “burn-out, come è stato definito - dovuto al contrastante rapporto tra scienza e passione: le incombenze burocratiche, le limitazioni alla libertà prescrittiva nelle indagini diagnostiche e nelle terapie e il sovraccarico di lavoro ne sono alla radice, e compromettono anche il lato affettivo della nostra professione.

Dall'altra sponda pure il paziente accampa le sue difficoltà; se ne possono elencare alcune delle più comuni: erronee convinzioni sulla sua malattia dedotte dai mass-media; preoccupazione per i possibili effetti secondari delle terapie, leggendone i fogli illustrativi; errori o imprecisioni nell'assunzione dei farmaci; diffidenza sull'impegno diagnostico e terapeutico dei medici, e delusione quando vengono meno le illusorie prospettive miracolistiche di una onnipotenza della scienza medica.

Superate queste difficoltà dell'una e dell'altra parte ci ritroviamo ai piedi del letto con la risma dei fogli usciti dalla stampante o dietro alla scrivania, con l'immancabile computer davanti agli occhi. È a questo punto che si deve manifestare la famosa “alleanza terapeutica”: comportarsi in modo affettivo camminando dentro l'animo del paziente, cercando di percepire come vive la sua malattia e come pensa di poterne uscire col nostro aiuto. Il quadro tecnologico non sarà più “davanti” a noi, ma al nostro fianco, come fosse un bastone che ci sorregge nel nostro andare. E alla fine, quando daremo la mano al paziente guardandoci negli occhi, sapremo di aver fiducia l'uno nell'altro, nel reciproco impegno di uscire dal tunnel della sua malattia.



• Cardiologo. Responsabile della Commissione Culturale dell’Ordine dei Medici di Genova



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