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Un intreccio complicato

Un intreccio complicato

Professione donna - La fatica di vivere in un paese in cui le cittadine e lavoratrici competenti sono spesso invisibili e ignorate, ma il loro lavoro gratuito è dato per scontato

Saraceno Chiara Lunedi, 07/03/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2011

E’ difficile essere una donna in Italia oggi, a qualsiasi età. Non mi riferisco solo allo scempio del femminile prodotto nell’immaginario collettivo dai comportamenti pubblici e privati di Berlusconi e dei suoi sodali. E neppure solo al contesto più generale in cui esso si colloca, segnato da anni di una immagine pervasiva del corpo insieme erotizzato e omologato delle donne che ha invaso ogni spazio. Una pervasività così sistematica e diffusa di cui si coglie l’anomalia solo se si sta un po’ all’estero, dove per pubblicizzare una rete telefonica, ad esempio, per lo più non si sente il bisogno di utilizzare messaggi erotici e ammiccanti; dove giornaliste e anchor women sono donne “normali” e mediamente non rifatte da capo a piedi; e dove anche le attrici possono invecchiare (certo, meno dei colleghi maschi) senza essere del tutto emarginate e condannate a parti da nonna ottocentesca. Mi riferisco anche alla quotidianità del vivere, al grado di riconoscimento che ottengono, alla legittimità che viene riconosciuta alle loro speranze e progetti, alle risorse cui hanno accesso per provare a realizzarli. Certo, condividono molta di questa fatica con gli uomini, specie i giovani, in una società che investe così poco sui propri cittadini (inclusi i nuovi arrivati), che mostra così poca cura e apprezzamento per chi si impegna, così poco universalistica nei suoi criteri e comportamenti. Ma per le donne c’è un di più di fatica legata proprio al loro essere donne: all’intreccio complicato tra gli stereotipi di cui sono oggetto, le ridotte pari opportunità che incontrano nel mercato del lavoro e nella partecipazione sociale e politica, l’invisibilità (e la difficile condivisione) del lavoro familiare e di cura di cui molte di loro si fanno carico o si sono fatte carico in passato, con costi sul piano economico e professionale. C’è la fatica di vivere in un paese in cui le donne come cittadine e lavoratrici competenti sono spesso rese invisibili e ignorate, ma il loro lavoro gratuito è dato per scontato. Dove è difficile sia lavorare che fare una famiglia. E dove anche il piacere e la gratuità del “fare le nonne” si trasforma in un rigido servizio indispensabile per aiutare le figlie e nuore a non farsi schiacciare da una conciliazione impossibile, o sempre precaria.

Per questa fatica quotidiana misconosciuta, per questa invisibilità e mortificazione soprattutto delle aspettative delle donne più giovani, cui la mia generazione aveva consegnato la speranza di un cammino faticoso, ma aperto, mi infastidisce che ci si mobiliti a favore delle donne solo nei casi plateali e un po’ pruriginosi dei festini di Arcore piuttosto che al Salaria Village. Si dimentica, o meglio si ignora, l’insulto e l’umiliazione cui le donne sono sottoposte ogni giorno dalla rappresentazione mediatica e, soprattutto, dalla disinvoltura con cui chi ha un qualche potere decisionale sistematicamente le esclude, o relega in posizione marginale o decorativa, in politica, in economia, nell’università e via elencando. Le eccezioni sono così rare da essere, appunto, viste come tali, non come ciò che dovrebbe essere normale. Il fatto che, nonostante questo, le donne italiane per lo più continuino a volere il pane e le rose, un lavoro dignitoso e una famiglia, la possibilità di farsi valere e di contare, e abbiano ancora voglia di combattere per ottenere tutto ciò, è uno dei pochi segnali di speranza per tutte noi e per la società in cui viviamo.



(7 marzo 2011)


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