Giulio Costa è un autore e regista italiano. Laureato in Architettura, formatosi alla Scuola di perfezionamento per registi e attori diretta da Luca Ronconi, assistente alla regia di Giorgio Gallione, Lucio Dalla, Lorenzo Mariani, Lluis Pasqual e in spettacoli come Notre Dame di Paris di Riccardo Cocciante, è autore e regista di testi teatrali quali Il tunnel, Reduci, Clausura, Kilimanjaro, Immobili. Ora sta lavorando ad una serie di spettacoli, prodotti con il Teatro Comunale di Occhiobello, che raccontano i mestieri, ed è in scena con “Senza titolo”, in cui rappresenta il dramma della scuola italiana. Un sapere in pillole somministrato attraverso l’ausilio di materiali raccolti e costruiti dallo stesso insegnante. Manuali e testi della grande letteratura, tutto lo scibile umano racchiuso in 60 minuti di una lezione dove non c’è più spazio per l’approfondimento, la riflessione, il dialogo con gli studenti e perciò la costruzione di una coscienza critica. La solitudine e la frustrazione dell’insegnante a scuola che si improvvisa tuttologo e deve ridurre al minimo la sua materia.
1. A quale pubblico si rivolge il tuo spettacolo e che tipo di risposte ha trovato la tua visione della scuola?
È difficile definire il pubblico a cui ci si rivolge; senz’altro dovrebbe essere un pubblico disponibile a fare un’esperienza. “Senza titolo” è il primo spettacolo di un progetto dedicato ai mestieri - Manufatti Artigiani, produzione Costa/Teatro Comunale di Occhiobello-Arkadis - in cui viene messo in scena l’uomo al lavoro. Questo significa che lo spettatore si trova a osservare una successione di azioni che dipendono dai tempi necessari all’attività lavorativa. Mi aspetto dunque che lo spettatore, davanti all’assurdità dei gesti quotidiani, si possa divertire, infastidire, sorprendere e interrogare sul proprio ruolo dentro e fuori dal teatro. Nel caso specifico di “Senza titolo”, il tempo (o, meglio, la mancanza di tempo) è determinante per mostrare un mestiere che si dovrebbe fondare su parametri atemporali. Questo ha portato il pubblico, in tutte le repliche effettuate finora, a essere estremamente partecipe e solidale davanti alle difficoltà dell’insegnante-senza-titolo.
2. Cosa ti ha portato ad esplorare il mondo della scuola? Come ti sei documentato e quale scuola hai scelto di rappresentare?
Credo che dipenda dal fatto che ho scoperto il valore della conoscenza solo da quando ho terminato gli studi. E questo mi sembra una contraddizione in termini, uno spreco enorme. Solo da quando lavoro ho cominciato a capire frasi come “è importante studiare”. Mi continuo a chiedere: perché non l’ho capito prima? Cos’è che, in generale, distrae dal desiderio di conoscere ciò che non si conosce? Siccome non ho risposte, ho provato a mettere davanti agli spettatori un’immagine che fosse la sintesi dei miei ricordi e dell’attuale situazione della scuola: il risultato è un bombardamento di informazioni che sembrano non attecchire mai. I libri che porto in scena sono i miei libri di testo di allora. La scuola rappresentata, invece, dovrebbe essere il risultato di una futura (ipotetica e definitiva) riforma che riduca le elementari, le medie e le superiori a un’unica ora di lezione. Alcuni argomenti sono quelli che, da studente, ho amato o odiato maggiormente, altri sono quelli che, da insegnante, preferisco divulgare. Ci tengo a dire che la lezione-senza-titolo viene svolta nel rispetto della verità dell’azione: non c’è nessun copione a memoria, esattamente come per un qualsiasi docente davanti agli studenti. In fase di ideazione è stato fondamentale il confronto con insegnanti delle scuole primarie e secondarie.
3. Il tuo teatro è ricco di parola ma nello stesso tempo scarno, concentrato sull’azione. È più efficace guardare l’uomo che agisce piuttosto che continuare a scrivere un teatro che dice la verità della vita, mimare e non più spiegare per paura di rifuggire dalla retorica?
In effetti questi sono i dubbi che mi accompagnano nel mio mestiere. Dopo Beckett, Peter Brook e Pina Bausch è davvero difficile non fare i conti con un teatro fisico, visivo, elementare e complesso allo stesso tempo. È una bella sfida che vale la pena affrontare per ridare unicità al teatro.
4. Perché “Senza titolo”?
Sostanzialmente per due motivi: primo, per richiamare alcune forme d’arte astratta a cui non viene dato un titolo con l’obiettivo di lasciare aperta ogni interpretazione; secondo, perché io nella realtà non sono un professore, quindi non ho il titolo per insegnare.
5. Che differenza c’è fra la scuola che rappresenti e quella che hai frequentato da studente?
Emblematica la presenza di un rotolo di carta igienica sulla cattedra di cartone che l’insegnante si costruisce in scena.
La carta igienica è una risata assicurata nello spettacolo, anche se in realtà io non ho mai avuto necessità di portarla da casa. La differenza tra la scuola che rappresento e quella che ho frequentato sta principalmente nei mezzi, nella carta igienica e nella cattedra che è di cartone anziché di fòrmica. È sotto gli occhi di tutti quanto si sia aggravata la situazione dell’istituzione scolastica, però temo che la scuola stia andando avanti da alcuni decenni con lo stesso difetto: quello di essere un lungo parcheggio dove si possono fare incontri importantissimi ma dove, ugualmente, si può rischiare di non incontrare nessuno. Purtroppo la lezione di Don Milani sembra cadere nel vuoto da troppo tempo; e questa non dipende dal materiale della cattedra ma dalla ‘fantasia’ degli insegnanti.
6. Nella tua memoria di studente c’è un insegnante al quale devi molto?
In piena adolescenza, negli anni delle scuole superiori, ho avuto la fortuna di incontrare uno straordinario professore di italiano, con una fisionomia simile a Don Chisciotte, che mi ha portato a comprendere quanto nella vita fosse determinante approfondire il proprio punto di vista. Nello spettacolo, la poesia che viene interrotta bruscamente dalla campanella - “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi - è dedicata a lui, che me l’ha fatta scoprire e amare.
7. Qual è secondo te il futuro della scuola, da dove o da chi può ripartire il suo riscatto?
Dagli insegnanti e dai genitori. E da una scuola che sia un luogo comunitario, dove fare esperienza di solidarietà, condivisione e crescita personale.
8. Il mondo della scuola oggi è abitato soprattutto da donne, le grandi escluse dai percorsi del pensiero nei secoli passati. Come ha cambiato la sua presenza la scuola moderna e come credi possa contribuire a salvarla?
Se escludo l’Università, la maggior parte degli insegnanti che ho avuto sono state donne e posso dire che, nel corso degli studi, non mi sono mai trovato a ragionare in termini di genere. Oggi, però, conosco molte coetanee che insegnano da qualche anno, in mezzo alle difficoltà economiche e di precariato, e le ammiro molto perché mi sembra di cogliere in loro il tentativo di trasmettere agli studenti la propria personale curiosità per la cultura in generale (prerogativa statisticamente femminile). Probabilmente questo atto di diffusione culturale a 360° e, quindi, la consapevolezza di sentirsi parte di un tutto, può essere, grazie alle donne, all’origine di quello spirito comunitario di cui parlavo poc’anzi.
9. Che legame c’è secondo te fra la precarietà che vive la cultura di questi tempi e la condizione attuale della scuola, che tanto bene descrivi nel tuo spettacolo?
Credo che la cultura e la formazione ultimamente abbiano lo stesso triste destino. L’idea dello spettacolo deriva proprio da questa considerazione, dal fatto che oggi viene totalmente sottovalutata la necessità dell’uomo di conoscere e andare oltre le proprie conoscenze. Non nascondo che, per me, lo spettacolo non è solamente una denuncia della scuola, ma anche (e soprattutto) una metafora del vivere rimanendo in superficie.
10. L’effetto è straniante: non si può fare a meno di ridere davanti al tentativo di questo insegnante di fare tutto in poco tempo, dimenandosi fra manuali, cartine geografiche, boccette e dizionari, eppure una profonda amarezza accompagna tutto lo spettacolo in modo costante e potente. Al suono della campanella un forte senso di indignazione e rabbia, sconforto e frustrazione ci fanno ricadere nella realtà con rinnovata consapevolezza. Era questo l’obiettivo che volevi raggiungere con il tuo spettacolo?
Sì. E aggiungo che anch’io nel farlo provo le stesse sensazioni: effetto straniante, amarezza, sconforto, eccetera. Ho alcuni dubbi sulla “rinnovata consapevolezza” - mia e dello spettatore - ma ovviamente ci spero.
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