Mercoledi, 05/12/2012 - Ci sono incontri che programmi con la volontà ferma di trarre da essi la loro parte migliore. Ci sono incontri che, avvenendo per caso, ti colgono impreparata a coglierne i conseguenti risvolti. E, poi, ci sono incontri che, seppur prescelti, ti lasceranno un segno indelebile perché un imprevisto li renderà speciali. Quest’ultimo caso è quello che mi ha visto coinvolta venerdì scorso, allorquando ho partecipato ad un’iniziativa con protagonista la poetessa siriana Maram Al Masri., ossia un reading delle sue liriche tenutosi a Cava dei Tirreni (Sa) grazie al contributo della Associazione antiviolenza Frida. Avevo fatto quasi al buio la scelta di incontrare chi dal suo esilio parigino continua a scrivere e a raccontare delle donne e della loro vita quotidiana, fatta di amori,sogni, speranze ma anche di violenza, sopraffazione e dolore. Difatti non conoscevo le opere di Maram Al Masri, eppure solo a leggerne la biografia di attivista politica contro il regime di Bashir Al Assad e a scoprire alcuni suoi versi, tratti da una poesia dell’ ultima raccolta “Anime scalze”, si era verificata in me quella strana alchimia che portò a dire a me stessa: “voglio conoscerla personalmente”. Mi incuriosiva la circostanza di poter incontrare questa donna siriana, perché non riuscivo ad immaginare come potesse conciliare la sua dimensione pubblica con quella privata. Una poetessa araba che fa politica mi sembrava un antitesi più che naturale, soprattutto alla luce di quell’idea alquanto definita che avevo del suo universo femminile d’appartenenza. Pensavo, in verità, che la lotta d’emancipazione di genere in quei paesi passasse necessariamente attraverso la conquista dei più elementari diritti di libertà, quali, ad esempio, quello di circolare liberamente, di scegliersi il proprio compagno di vita, di avere una propria autonomia di pensiero sia nella sfera privata che pubblica. E l’emblema di questa lotta mi sembrava fosse il doversi liberare del velo indossato sul capo, a mio parere, simbolo concreto del ruolo a cui tali donne sono costrette.
Cosicchè, quando ho iniziato a leggere su di uno schermo le parole delle poesie di Maram tradotte ad opera della sua casa editrice italiana, la Multimedia di Baronissi (Sa), correvo con gli occhi e la mente il più veloce possibile, perché volevo sì cogliere il senso di quel che lei leggeva nell’idioma siriano, ma sentivo ancor di più il desiderio di guardarla mentre decantava le sue liriche. L’abbigliamento a metà tra l’occidentale e l’orientale, i capelli ricadenti sulle spalle erano un tutt’uno con la sua capacità d’interpretare in pochi versi le storie delle donne che raccontava. Lì ho colto come riuscisse a coniugare la Maram privata con quella pubblica. Certo ho ascoltato dalla sua intensa, ma al contempo delicata voce, le piccole storie di chi vive una realtà fatta di amori sofferti, di assenze brucianti, di gioie tenui, e anche di quel genere di violenza giornaliera, frutto di una cultura che vuole la donna araba particolarmente sottomessa al proprio uomo. “Naima non ha il diritto di parlare ai vicini,/ di sorridere davanti allo specchio/ né di guardare la televisione/ (di cui lui ha nascosto il telecomando in un angolino inaccessibile)./ Naima si ferisce la mano/ quando il marito non c’è/ infilandola nella fessura del mobile/ per recuperarlo./ Pigia i tasti/ e riesce ad evadere dalla sua casa/ attraverso lo schermo”.
E’ arrivato alfine il momento del pubblico confronto con l’autrice siriana e ,quando le ho rivolto una precipua domanda relativa al modo con cui veniva guardata, lei con il vento tra i capelli, dalle sue conterranee che invece indossano il velo, Maram si è a lungo soffermata sulla risposta. Voleva, difatti, farmi comprendere che molte arabe si considerano libere pur coprendosi il capo e così ha raccontato che la moglie del figlio invece le rimprovera di essere “schiava del rossetto, del profumo, della cipria”. Come è stato particolarmente sentito ed intensamente sofferente il volere spiegarmi quella loro libertà e quante volte ha chiesto all’interprete di tradurre le sue parole al riguardo. Era come se mi chiedesse di rispettare le donne col velo per quelle che sono, anche con le loro idee sulla funzione di quel copricapo. Allora io, alquanto sconfortata, le ho chiesto: “quindi, è inutile lottare anche in nome e per conto di chi lo indossa affinchè anche loro sentano il vento tra i capelli?”. Accarezzandomi il capo in un gesto di sorellanza ideale, Maram mi ha risposto di sì, facendomi comprendere che è invece sulla conquista dei diritti civili fondamentali che si può raggiungere un’intesa con le donne arabe.
Quella domanda, sorta imprevista a vederla senza velo in capo e quella risposta, altrettanto inattesa, mi hanno dato ancora di più il senso di una donna che nel ruolo privato di narratrice dei sentimenti, che accompagnano la vita del suo universo femminile d’appartenenza e no, mette quel tanto di sé proprio del personaggio pubblico in prima linea nelle battaglie civili e politiche per l’emancipazione delle donne arabe. Ossia comprensione pur nella diversità di vedute, nostalgia pur nella lontananza fisica dai luoghi natii e, soprattutto, tanto, tanto amore per chi nei Paesi orientali si impegna, per quanto sia nelle sue capacità e possibilità, a far ottenere al proprio genere le vere e fondamentali libertà.
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