Lunedi, 06/09/2021 - Come tante e tanti da giorni seguo le drammatiche vicende dell’Afghanistan con un'attenzione speciale e un tempo più ”dedicato” alle donne, a quelle nostre sorelle che stanno soffrendo più e di più e sulle quali è importante mantenere l’attenzione: sia su chi è riuscita a fuggire sia su chi è dolorosamente rimasta; e ancora: sulle voci di donne riuscite a trapelare dai canali più segreti sia di chi parla oramai in salvo in nome e per conto di sé e delle altre, sia per il ruolo di rilievo artistico e sociale o semplicemente perché felicemente intervistata. Un'attenzione che vorrebbe e dovrebbe riuscire a trasformarsi in azioni e idee utili: obiettivo non facile ma che parte almeno dal mantenere alta l’attenzione su coloro che corrono pericoli enormi, di cui il burqa simboleggia l’aspetto più evidente e violento nell’evidenziare la privazione della propria individualità.
Ed è proprio in questo quotidiano bollettino, da cui ci sono note le conseguenze terribili della “ fuga”, seppur patteggiata in precedenza, dell’America e di altri Paesi occidentali tra cui l’Italia, potenze che il 31 agosto hanno lasciato l’Afghanista in mano ai Talebani portando via alcune migliaia di afghani - più esposti per aver collaborato con gli occupanti - che emerge potente la coraggiosissima protesta di alcune donne. Una protesta esplosa a Herat, Kandahar, Kabul. Donne che a viso scoperto e con i loro cartelli sono riuscite a sfidare i Talebani nonostante i divieti e a mostrare le loro parole d’ordine, le loro richieste prima di essere intimidite e ricacciate nel buio dell’anonimato e forse di violenze silenziose.
Fra le foto che sono riuscite ad arrivarci, vediamo alcuni cartelli ripetuti - perché evidentemente concordati - che parlano e impongono davvero impegno e responsabilità per queste coraggiose resistenti (che non possiamo che definire Partigiane con la P maiuscola) dei diritti, della loro dignità, di una vita degna di essere vissuta nel loro paese sentendosene, come recita proprio uno dei cartelli, uno dei simboli più interessanti.
Ed è ancora uno fra questi cartelli che mi è sembrato tanto intenso nell’aggettivo usato da suggerirmi di soffermarmici e riflettere una volta in più. La potente e prepotente richiesta di essere inserite nel governo del paese definendo eroica, nella letterale traduzione, quella partecipazione richiesta.
Mi sono interrogata se nella scelta di quell’aggettivo non ci sia stata la scelta di sintetizzare tanti concetti in una sola parola. Perché è infatti già eroico scendere e chiedere di essere incluse nel governo, sapendo che non c’è volontà di andare in tale direzione e, se mai si realizzasse seppur non fra i ministri come gli stessi Talebani hanno già precisato, sarebbe necessario un buon tot di eroismo di dire la propria tra chi non ti vuole e comunque ti considera inferiore, se non addirittura un niente invadente.
Quello che risulta davvero interessante - e rappresenta comunque una speranza - è proprio come fra le donne afghane sia cresciuta e si esprima una coraggiosa e determinata avanguardia che non si arrende e non vuole tornare indietro rispetto a quanto, già in modo analogo, accadde dopo che i russi lasciarono il paese costringendole a tornare al burqa, negazione stessa dell’esistere.
Certo le manifestazioni a cui ho fatto riferimento hanno toccato le città più importanti e sicuramente molto coinvolte in questi 20 anni di occupazione, nell’occidentalizzazione del paese, presumibilmente a differenza di quella parte rurale e interna del paese dove è possibile che cambiamenti e innovazioni siano state molto poco percepite o siano passate senza lasciare la stessa traccia, tema su cui sarebbe interessante saperne di più perché è anche vero che se la scuola e il diritto allo studio per le ragazze è arrivato ed è stato praticato ovunque, questo ha sicuramente lasciato, in qualche modo, il segno anche lì.
Tornando alle manifestazioni, c’è un altro episodio che mi interessa riportare - per come l’ho in questo caso ascoltato - e che mi sembra importante. In uno dei suoi servizi la bravissima giornalista Lucia Goracci, proprio in occasione di una delle manifestazioni degli ultimi giorni, nel fare da cassa di risonanza della voce delle afghane ripeteva, sottolineandolo, un loro appello circa la richiesta e la speranza che le donne fuori, cioè quelle uscite fortunatamente dal paese, si occupassero di quelle 'chiuse' dentro all’Afghanistan.
E’ allora questo il punto nodale vero, certo non facile né scontato: come mantenere forte il legame per organizzare e come prendersi cura di queste sorelle così lontane non solo rispetto ai chilometri, ma tenendo conto di una condizione di estrema difficoltà civile e anche economica per moltissime per le quali la fuga dell’occidente ha significato anche la perdita del lavoro.
La realtà di cui parliamo richiede grande umiltà nel cercare di riflettere sul che fare e su come coinvolgere, al di là della retorica, i governi senza dimenticare mai che negli accordi di Doha l’America rappresentata dal Presidente Trump con alcuna “parola” si premurò di salvaguardare i diritti femminili e nessuno sembra essersene accorto, o comunque avergli dato peso, prima della fuga di agosto.
Vorrei comunque terminare queste momentanee riflessioni pensando che quanto è avvenuto in questi venti anni, se non ha lasciato nè un governo nè un nuovo esercito forte e motivato, ha sicuramente prodotto e insinuato in profondità nuovi desideri, pensieri, certezze e nuove progettualità soprattutto nelle donne, ovvero in chi di più aveva da guadagnare nel nuovo palcoscenico di riferimentoè . Uno scenario tra l’altro avvenuto in piena espansione e utilizzo delle nuove tecnologie e di quella facilità di comunicazione e divulgazione, che a differenza di decenni passati ha moltiplicato il sapere e il poter condividere di territorio in territorio ovunque ci fosse un computer o un cellulare, seminando aspettative a cui dedicarsi progettando un futuro.
Ovviamente nessun finale a questi pensieri, che ho il piacere di condividere proprio per arricchire e arricchirmi in un confronto utile e che ci deve accompagnare a lungo facendoci trovare, oltre o accanto agli appelli dei Governi, di non dimenticare i diritti delle donne, altre azioni e idee che rafforzando la rete delle donne afghane chiuse nel paese e di quelle che hanno varcato la frontiera ci permetta di interloquire con loro e aiutarle, solidarizzando con chi oggi rappresenta una vera cellula di resistenza coraggiosa e fortemente motivata in Afghanistan. Non è troppo dire che possa essere una speranza di civiltà da sostenere e alimentare con fatti concreti, seppur piccoli ma senza scadenze, a servizio di se stesse e del proprio paese per cui costituiscono forse la più forte energia e speranza di cambiamento da augurarci, anche con una fascia crescente di uomini afghani "complici" in una nuova prospettiva di affermazione del diritto delle donne a una vita di pari dignità .
Paola Ortensi, ,6 settembre 2021
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