Un estratto da “Storia (infinita) del Doppio Cognome” di Adelaide Barigozzi per Elle… e il pensiero
La giornalista Adelaide Barigozzi, redattrice di ELLE magazine, ha pubblicato sul n. 8 di marzo un’inchiesta, con interviste a Loredana De Petris, Donatella Conzatti e Iole Natoli, sulla riforma dell’attribuzione automatica del cognome paterno
Lunedi, 07/03/2022 - Dal 15 febbraio di quest’anno la “Legge sul doppio cognome” ha mosso i suoi primi passi nella commissione Giustizia del Senato.
Primi in questa Legislatura, perché in quella precedente una Proposta di Legge sul Cognome Materno ebbe a passare dallo stadio di percorso in girello, a piedini impacciati, al più avanzato di camminata in posizione eretta, sino a quello di passo sicuro con cui uscire baldanzosamente dalla Camera per bussare alla porta del Senato.
Lì un’improvvida colata di gesso ne fece un sordido calco per scultura, per poi precipitarla nel burrone delle aspiranti leggi decedute per sopravvenuta decadenza della Legislatura. Operazione perfettamente riuscita.
Esistono due sistemi differenti per bloccare quel che non si vuol fare giungere in Gazzetta. Il primo consiste nell’opporre senza mezzi termini un NO, anacronistico, fuori secolo, censurabile. Insostenibile non solo sul piano ideologico, ma perché grazie all’albero sempreverde del NO l’Italia ha già avuto dal tribunale CEDU una condanna e la Corte Costituzionale dal canto suo ha lasciato intendere di non poterne più di dover sollecitare un Parlamento, che ha nicchiato in maniera invereconda. Un NO chiaro da barbari, sicuramente incivile e tuttavia, nella sua stupidità, coraggioso.
Il secondo, che qualificherei come metodo “sporco”, consiste nel non esporsi direttamente ma nell’agire affinché una Proposta di Legge non possa giungere mai a destinazione. Ci si avvale allo scopo di sbarramenti, non dichiarati apertamente come tali ma gestiti in maniera più occulta, o mediante presentazioni tardive di proposte accompagnate dalle richieste – ma guarda un po’! - di rinvii, o con piogge di emendamenti inutili e infiniti.
È qualcosa che accade per tutti i provvedimenti che una parte del Parlamento non vuole e c’è il rischio che la ghigliottina delle leggi, mascherata da solerzia sociale, abbassi la sua mannaia anche sul Cognome materno a figli e figlie che preme per venire alla luce in questo scorcio di legislatura.
Passo ora all’estratto dell’inchiesta per la parte che direttamente mi riguarda.
Ottimista con qualche riserva - scrive Adelaide Barigozzi che nel suo testo cita anche la ministra Elena Bonetti e la giudice Daria de Pretis - si dichiara invece Iole Natoli, giornalista e attivista che della battaglia civile per il cognome materno ha fatto la passione di una vita da ben 43 anni. «Secondo me dopo l’ordinanza della Corte costituzionale, il Senato dovrà per forza intervenire», dice. «Il mio dubbio è un altro: poiché ci sarà senz’altro chi si opporrà, potrebbe succedere che la legge venga approvata in Senato all’ultimo minuto, così poi non ci sarà più tempo per la Camera».
Natoli gestisce il blog e gruppo Facebook Il cognome materno in Italia ed è la memoria storica di una vicenda che si trascina da troppi anni. «Quando alla nascita della prima figlia ho scoperto che per darle il mio cognome dovevo rivolgermi all’allora ministro di Grazia e giustizia, mi sono detta: “Ma come? L’ho partorita io e devo chiedere il permesso?”.
Interrompo lo stralcio dall’intervista per rilevare come un tale sconcerto misto a indignazione è la più naturale delle reazioni che la patrilinearità obbligatoria ha suscitato e suscita nelle donne. In proposito invito all’ascolto delle parole che Carla Bassu, docente associata di diritto pubblico comparato presso l’università di Sassari, ha pronunciato in occasione di un Convegno svoltosi l’8 novembre del 2021 nella sede del Senato.
Bassu, autrice tra l’altro del libro “L’identità anagrafica” edito nel 2021, narra di esser dovuta ricorrere anni fa insieme al marito a una pratica prefettizia, affinché la figlia potesse avere accanto al paterno il cognome della madre, “che è anche suo patrimonio”, rileva, “perché mia figlia è parte della mia identità e io sono parte dell’identità di mia figlia”. Una discriminazione nei confronti della donna, dichiara, da cui è stata profondamente ferita, esercitata tramite una procedura denominata cambio cognome “come se”, sottolinea acutamente, “il cognome naturale, giusto”, possa essere solo “il paterno”.
L’inconcepibilità di tale discriminazione, di un’evidente amputazione dell’identità lei l’ha avvertita nella sua interezza anche per via degli studi di giurisprudenza affrontati, per l’assimilazione di quei valori e principi di uguaglianza, rispetto e dignità della persona umana di cui la nostra carta costituzionale si è fatta portatrice nel lontano 1948. Nella sua testimonianza sentita ritrovo la mia stessa situazione, anche se nel mio caso gli studi non sono stati di giurisprudenza ma di filosofia e soprattutto di psicologia, sociologia e antropologia culturale. Il tema dell’identità mi era da anni tanto congeniale che fui io stessa a chiedere una tesi sulla “Crisi d’identità in E. H. Erikson”, di cui avevo apprezzato le opere.
Sono aspetti che molte persone non colgono. L’unità della persona, che vive come un tutt’uno la propria esperienza di vita – in questo caso di donna – e la formazione culturale che si è data, è spesso sottovalutata dai più. Invece tutto ciò agisce nella psiche e non solo a livello consapevole. Lavora incessantemente nell’inconscio. Crea fratture o meglio le riconosce ed esige che siano riparate.
Nel 1977, dunque prima ancora di scrivere l’articolo del 1979 a cui fa riferimento Barigozzi nell’intervista, in un momento di “grazia creativa” realizzai un disegno a carboncino che riconobbi all’istante come un utero gravido di donna. Non sono mai stata una figurativa, tranne che nelle illustrazioni destinate all’editoria o alla pubblicità, dunque chi osserva non vede la raffigurazione descrittiva di un grembo materno. Eppure ho sempre saputo che è così.
In merito al mio articolo del giugno 1979 “La soppressione della donna nella struttura familiare” contenente la prima proposta in assoluto per il cognome materno nell’Italia repubblicana, centrata nello specifico sul doppio cognome, preciso che prima di me ci provò, non da saggista ma da deputato, Salvatore Morelli nel Regno d’Italia. Se la sua proposta fosse sufficientemente articolata o limitata a un semplice enunciato – per quanto strano possa apparire, una cosa del genere è accaduta in una delle legislature precedenti - non è dato saperlo. Non ci sono documenti in proposito nell’archivio del Parlamento, come ho verificato io stessa grazie alla collaborazione della Biblioteca del Senato a cui mi sono rivolta anni fa.
Torno adesso con un altro brano all’intervista avuta con Adelaide Barigozzi.
«Il cognome patrilineare è il burqa culturale delle donne: poggia su un’idea di possesso e prevaricazione da parte dell’uomo», continua l’attivista. «Ignorando fino a oggi i richiami della Consulta e le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, lo Stato ha permesso che si diffondesse un malefico messaggio che rende lecita la soppressione della donna nella struttura familiare». La posizione di Natoli, che ha presentato al Parlamento una petizione (1), è più drastica, rispetto ai Ddl. A suo parere, il figlio dovrebbe prendere innanzitutto il cognome della madre poiché è la prima persona con cui entra in relazione, in base al principio, da lei elaborato, della “prossimità neonatale”. «Perfino le proposte di legge usano un linguaggio patriarcale: tutte, nessuna esclusa, tra le opzioni possibili citano il cognome del padre sempre per primo», osserva.
Già, perché la tradizione, unita al desiderio di non disturbare troppo il “nemico”, pena l’affossamento della legge, fa sì che il tanto conclamato ricorso al sacro ordine alfabetico, celebrato anche in tutte le Proposte presentate, venga meno non appena ci si accosta all’ordine familiare patriarcale, che ci è stato infilato nel cervello a viva forza. La famiglia è composta da “Padre, Madre e Figli”, tuona ancor oggi il più noto esponente della Lega, occultando in primo luogo il fatto che esistono vari tipi di famiglie, quella eterosessuale, quella omosessuale, quella di elezione costituita da “parenti” prescelti - ovvero non tali per vincoli di sangue - che ha già trovato legittimo ascolto in Germania e, ancora, quella che figli non intende farne ma che è ugualmente famiglia.
Non è l’unica dimenticanza che impera. La sequenza “Padre, Madre, Figli” con cui si descrive quella che si intende come “famiglia tradizionale” e che io chiamo “eterosessuale generativa” in quanto intende generare figli, nasconde spasmodicamente una differenza fondamentale. Madre e padre forniscono la metà del patrimonio genetico che avrà il figlio, apporto fin qui paritario, ma senza la madre che trasmette il DNA mitocondriale consentendo lo sviluppo del “concepito” (rarissimi i casi, che sarebbero stati scoperti di recente, di una trasmissione per via paterna), senza la madre che – sola - oltre a far ciò mette al mondo… non c’è padre generante che tenga.
Allora io propongo a TUTTE le donne di cominciare a cambiare il linguaggio. Non recitiamo più come una giaculatoria o una posta di rosario (oggi il leader della Lega m’ispira…) che la “famiglia eterosessuale generativa” (dunque, ripeto NON l’unica famiglia esistente) è composta da “Padre, Madre e Figli”, ma da “Madre, Padre e Prole”. Se la parola prole suona ostica allora diciamo “Madre, Padre, Figli e Figlie”, formula in cui la posposizione del genere femminile della prole trova la sua unica giustificazione possibile nel salvagente alfabetico, a cui si aggrappano con palpabile angoscia TUTTE le proposte di legge, quando scartano l’ipotesi più democratica del sorteggio - saggiamente adottata in Lussemburgo - nei casi di discordanza tra i genitori sulla sequenza da attribuire ai cognomi.
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